venerdì 19 febbraio 2016

Abolitio criminis e reati tributari 'sotto-soglia': uno dei primi provvedimenti di revoca del giudicato

1. Il provvedimento in oggetto - con cui il giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Udine ha disposto la revoca ex art. 673 c.p.p. di una sentenza definitiva di condanna per un reato di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis d.lgs. 74/2000 - rappresenta un esempio delle rilevanti conseguenze pratiche derivanti dalla recente riforma dei reati tributari, operata dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.
2. Tra le varie modifiche apportate dalla riforma è stata infatti elevata la soglia di punibilità del reato di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis d.lgs. 74/2000, che è passata così da 50.000 euro a 150.000 euro, per ciascun periodo d'imposta.
Secondo l'orientamento maggioritario - fatto proprio anche dalle Sezioni Unite nel 2013 - la soglia di punibilità rappresenta un elemento costitutivo di tali delitti, in quanto elemento fattuale di cui si compone la situazione tipica, della quale contribuisce a definire il disvalore e che deve pertanto essere coperto da dolo. Un riposizionamento dell'asticella della punibilità nei termini anzidetti non poteva dunque che determinare il venir meno della rilevanza penale di una parte delle sotto-fattispecie precedentemente sussumibili all'interno di tali figure di reato. Dinanzi a un simile mutamento della fisionomia della fattispecie penale astratta, sembra dunque corretto parlare di una abolitio criminis parziale, fenomeno che soggiace - tanto quanto l'abolitio totale - alla regole generali di applicazione della legge nel tempo previste dall'art. 2, comma 2 c.p., in base alla quale "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato".
Le conseguenze di tale abolizione si apprezzeranno certamente nell'immediato futuro, ma si sono altresì avvertite nei procedimenti in corso al tempo della riforma: tutti gli imputati per reati divenuti "sotto-soglia" - i cui processi erano stati nella maggior parte dei casi sospesi, in attesa dell'esercizio della delega legislativa da parte del Governo - sono stati raggiunti da pronunce assolutorie ex art. 530 co. 1 c.p.p., ovvero da declaratorie predibattimentali ex art. 129 c.p.p..
Ma, come noto, il precetto contenuto nell'art. 2, comma 2 c.p. prevede altresì che "se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali" e trova - quale risvolto processuale - la norma di cui all'art. 673 c.p.p. Quest'ultima disposizione - statuendo che "nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti" - attribuisce all'abolitio una retroattività illimitata e, dunque, una portata risolutiva del giudicato penale.
3. Di tale strumento processuale si è correttamente servito - previa apposita istanza del difensore del condannato - il giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Udine il quale, con il provvedimento in oggetto, ha revocato una sentenza definitiva di condanna pronunciata in epoca anteriore alla recente riforma dei reati tributari, con cui l'imputato era stato condannato alla pena di sei mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, in relazione ad un reato di omesso versamento di ritenute ex art. 10-bis d.lgs. 74/2000 per un ammontare di 61.922 euro, importo superiore alla soglia vigente al momento del fatto (50.000 euro), ma inferiore all'attuale soglia modificata dal d.lgs. 158/2015 (150.000 euro). La "formula" utilizzata nel provvedimento è naturalmente quella indicata dallo stesso art. 673 c.p.p., ossia "perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato".
4. Insomma, una limpida applicazione della disciplina di cui all'art. 2 c.p. e 673 c.p.p., posta com'è a garanzia della credibilità complessiva dell'ordinamento e dell'uguaglianza fra i consociati, valori senz'altro preminenti rispetto al dogma dell'intangibilità del giudicato. Un istituto, cioè, volto ad impedire che, creatosi un 'vuoto punitivo' nell'ordinamento e venuto meno il disvalore penale della condotta, possa permanere una sentenza fondata su di una norma ormai abrogata e, dunque, priva di quell'efficacia giuridica che ne legittimerebbe l'esecuzione e la produzione di ulteriori effetti penali. Alla revoca consegue infatti la cessazione dell'esecuzione della pena principale, delle pene accessorie e degli altri effetti penali della condanna; ciò incidendo, ad esempio, non solo sulla cancellazione dal casellario giudiziario della relativa sentenza, ma anche sulla possibilità del condannato di (ri)fruire della sospensione condizionale della pena.
5. Meno scontata appare invece l'osservazione svolta nel provvedimento in oggetto - seppur solamente in via incidentale - con riferimento alla formula assolutoria che il giudice avrebbe dovuto utilizzare qualora il procedimento, anziché già definito con sentenza passata in giudicato, fosse stato ancora in corso. In quel caso - si afferma - l'imputato sarebbe andato assolto, non già con la formula "il fatto non è previsto come reato", ma con quella (più favorevole, poiché esclude ogni possibile rilevanza anche in sede diversa da quella penale) "il fatto non sussiste", stante la mancata integrazione di un elemento oggettivo costitutivo del reato: il superamento della soglia.
Tale conclusione, tuttavia, sembrerebbe scontrarsi con quell'insegnamento tradizionale, riportato da pressoché ogni manuale o commentario, in base al quale la formula da utilizzare in caso di abolitio criminis (così come nel caso di difetto di una norma incriminatrice, di dichiarazione di illegittimità costituzionale o di entrata in vigore della norma in epoca successiva al fatto) è quella "il fatto non è previsto dalla legge come reato".
Tuttavia, ad avallare la posizione accolta dal giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Udine stanno due recenti sentenze della III Sezione della Cassazione le quali - richiamando sul punto il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Orlando del 2011 -, sostengono che la formula "il fatto non è previsto come reato" si applichi ai casi di fattispecie astratta mai esistita, abrogata o dichiarata (in toto) costituzionalmente illegittima, mentre dovrebbe essere adottata la formula "il fatto non sussiste" ogniqualvolta risulti mancante un elemento costitutivo del reato di natura oggettiva.
La questione - si può osservare per inciso - potrebbe echeggiare quella sorta quando fu la Corte costituzionale, con la sent. n. 80/2014, ad 'innalzare' (nella sostanza) la soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice di cui all'art. 10-ter: anche in quel caso, infatti, risultò assai discussa l'opportunità di usare l'una o l'altra formula. Il richiamo non pare tuttavia determinante ai fini della questione che qui interessa, data l'impossibilità di equiparare l'ipotesi dell'abolitio legislativa a quella della dichiarazione di incostituzionalità: il primo, fenomeno fisiologico dell'ordinamento, il secondo, evento di patologia normativa. Il riferimento sembra nondimeno rappresentare un segnale dell'aura di incertezza che circonda la scelta delle formule assolutorie in casi del genere.
In ogni caso, la posizione accolta dal giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Udine e dalle citate due sentenze della III Sezione della Cassazione - secondo cui l'abolitio parziale in esame comporterebbe un'assoluzione per insussistenza del fatto qualora intervenuta prima della sentenza definitiva di condanna - potrebbe esporsi ad alcune obiezioni.
Anzitutto, il richiamo al principio contenuto nella citata sentenza delle Sezioni Unite Orlando non pare del tutto pertinente, giacché attinente ad un fatto di appropriazione indebita di denaro, contestato come "altrui", ma poi ritenuto dai giudici di proprietà dell'agente: in tal caso - conclusero le Sezioni Unite - andava utilizzata la formula "il fatto non sussiste" perché mancava l'elemento costitutivo dell'altruità della cosa; mentre si sarebbe dovuto usare la diversa formula "il fatto non è previsto come reato" solamente se (ma il caso sembra davvero difficilmente immaginabile) già nel capo d'imputazione fosse stata contestata l'appropriazione di denaro "proprio", condotta questa non incriminata dalla legge e quindi, appunto, "non prevista come reato". Quella pronuncia non riguardava quindi il caso di abolizione parziale intervenuta a modificare un elemento costitutivo del reato, ma si limitava a far dipendere la formula assolutoria dal "tenore letterale dell'addebito". Il principio sarebbe traslabile nel caso che ci interessa solamente qualora riferito all'immaginaria ipotesi in cui l'elemento dell'altruità fosse stato inserito nella fattispecie di appropriazione indebita per mezzo di una novella legislativa, il cui effetto fosse quello di depenalizzare la condotta appropriativa di denaro proprio.
In secondo luogo, stando all'impostazione accolta dal giudice dell'esecuzione presso il Tribunale di Udine e dalle due citate sentenze della III Sezione della Cassazione, si giungerebbe a distinguere l'ipotesi di abolitio parziale (a cui, come nel caso in esame, conseguirebbe un'assoluzione per insussistenza del fatto) e di abolitio totale (in cui la formula è pacificamente quella "perché il fatto non è previsto come reato"): il che non pare ragionevole, data l'identità di ratio e di base normativa delle due ipotesi.
Inoltre, un espresso riferimento alla formula "il fatto non è previsto come reato", individuata come quella appropriata in caso di abrogazione, si trova nell'art. 673 c.p.p., che è pacificamente applicabile (e infatti applicato nel caso in esame) nelle ipotesi di abolitio parziale dovuta al venir meno di un elemento costitutivo del reato.
Dunque - pur con la dovuta cautela, dovuta all'incertezza che, come detto, circonda tale materia - le considerazioni qui brevemente esposte paiono indurre a ritenere che, in presenza di una contestazione di un'omissione 'sopra-soglia' - e magari di una sentenza di primo grado che abbia già accertato la sussistenza del fatto - una sopravvenuta modifica legislativa che renda quel fatto 'sotto-soglia' dovrebbe condurre ad un'assoluzione perché "il fatto (sussistente e incriminato al momento della contestazione) non è (più) previsto dalla legge come reato", formula che sembra addirsi maggiormente alle ipotesi di abolizione del reato, parziale o totale che sia.
Del tutto diversa, ci pare, è l'ipotesi in cui sia stato contestato un fatto di mancato versamento che ecceda l'attuale soglia di 150.000 euro, e il giudice addivenga, in esito all'istruzione probatoria, ad una rideterminazione dell'imposta evasa tale da riqualificare il fatto come 'sotto-soglia'. Qui l'assoluzione dovrebbe comunque essere motivata per insussistenza del fatto. A giustificare una diversificazione di formula tra quest'ultima ipotesi e quella dell'abolitio criminis sta l'evidente differenza di situazione fra chi (a) imputato o condannato per una condotta penalmente illecita al momento del fatto, si trovi a beneficiare di una sopravvenuta depenalizzazione; e chi (b) venga accusato di un reato ma sia dichiarato innocente in quanto si accerta processualmente che la sua condotta era ab origine penalmente irrilevante, in quanto sprovvista di un carattere richiesto dalla legge quale elemento costitutivo del reato. Nel primo caso, infatti, il giudice ritiene sussistente il "fatto" contestato dal p.m., e anche la sua corretta qualificazione giuridica al tempo dell'imputazione, ma prende atto che quel "fatto" (contestato e accertato) non è più contemplato come reato dalla legislazione applicabile al momento della decisione, in forza dell'art. 2 c.p.; nel secondo caso, invece, all'esito dell'istruzione probatoria il giudice accerta che l'evasione è sotto-soglia, contrariamente a quanto risulta dal capo di imputazione, e dichiara pertanto non sussistente il "fatto" contestato dal p.m.

fonte: www.penalecontemporaneo.it//DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO

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