domenica 29 novembre 2015

Cambio lira-euro, un occhio al portafoglio, l’altro al riciclaggio

Giro di vite sulla riapertura delle procedure di conversione lira-euro. Coloro che non hanno cambiato le proprie banconote con biglietti del nuovo taglio, potranno ripresentarsi agli sportelli di Banca d’Italia per la conversione. La data d’inizio della procedura è ancora da definire; quel che è certa è l’applicazione di misure adeguate per contrastare riciclaggio e traffici di denaro sospetto. Il viceministro dell’economia, Luigi Casero, rispondendo nel corso del question time alla camera alla richiesta dell’onorevole Giovanni Paglia, il quale ha chiesto delucidazioni in merito alla necessità di dotarsi di strutture di difesa contro eventuali pratiche di riciclaggio e proventi da attività illecite, ha ricordato la circostanza dalla quale è nata l’intera vicenda. La Corte costituzionale, lo scorso 5 novembre, ha dichiarato illegittima la norma varata dal governo Monti che ha anticipato il termine di scadenza per le operazioni di cambio al 6 dicembre 2011. A circa tre mesi dalla scadenza, l’art. 23 del dl 201/2011, ha infatti disposto che «le banconote, i biglietti e le monete in lire ancora in circolazione si prescrivono a favore dell’Erario con decorrenza immediata». Con l’entrata in vigore dell’euro il 28 febbraio 2002 (convertito in 1.936,27 lire), le disposizioni di legge prevedevano che ai cittadini fosse data la possibilità di cambiare il vecchio conio con l’euro nei successivi dieci anni, vale a dire fino al 28/2/2012. Termini che ora dovranno essere riaperti nel rispetto dei dettami iniziali. Banca d’Italia ha sottolineato che, in sede di conversione, con importi superiori ai 5.000 euro o in caso di somme di denaro sospetto, l’operazione verrà registrata nell’archivio unico informatico. In un’ottica di lotta al riciclaggio e alle operazioni sospette, il passaggio dalle lire ai nuovi tagli avverrà esclusivamente con strumenti tracciabili, tramite vaglia cambiari di Banca d’Italia o accrediti in conto corrente. L’istituto ha infine stimato che, oltre ai 63 miliardi di controvalore in euro di banconote convertite al dicembre 2011, sono rimasti in circolazione circa 1,2 miliardi di controvalore in euro.

fonte: www.italiaoggi.it//Cambio lira-euro, un occhio al portafoglio, l’altro al riciclaggio - News - Italiaoggi

venerdì 27 novembre 2015

Canone RAI in bolletta, si paga in dieci rate

Per capire cosa sia il canone Rai, bisogna fare un balzo indietro fino al 1938, anno in cui risale il R.D.L. n. 246/1938, convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880. “Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento”, recitava l’incipit dell’art. 1. Insomma, già al tempo di Vittorio Emanuele III re d’Italia e imperatore d’Etiopia si parlava di canone televisivo. La tassa forse più odiata – ed evasa – dagli italiani è stata più volte messa in discussione dai Governi, senza per altro essere cancellata.
Fino ad oggi. Perché, come è noto, la Stabilità per il 2016 introdurrà una vera e rivoluzione in materia. Il canone “sparirà” e “ricomparirà” in bolletta nella misura di 100 euro, contro i 113 attuali. La proposta non è stata bocciata da palazzo Madama, e veleggia verso l’approvazione del Parlamento. La grande novità introdotta dalla Stabilità 2016 è dunque l’introduzione del vincolo tra il canone e la fornitura di energia elettrica: “La detenzione o l’utilizzo di un apparecchio si presumono altresì nel caso in cui esista una utenza per la fornitura di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua residenza anagrafica”. E, prosegue il DdL: “Il canone di abbonamento è, in ogni caso, dovuto una sola volta in relazione agli apparecchi di cui al primo comma detenuti o utilizzati, nei luoghi adibiti a propria residenza o dimora, dallo stesso soggetto e dai soggetti appartenenti alla stessa famiglia anagrafica, come individuata dall’art. 4 del regolamento di cui al D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223”.
Ciò detto, il Senato ha aggiunto la rateizzazione del pagamento: saranno dieci rate mensili, addebitate sulle fatture emesse dall’impresa elettrica. “Le rate, ai fini dell’inserimento in fattura, s’intendono scadute il primo giorno di ciascuno dei mesi da gennaio ad ottobre. L’importo delle rate è oggetto di distinta indicazione nel contesto della fattura emessa dall’impresa elettrica e non è imponibile ai fini fiscali”. La parte più controversa di tutta questa norma, che “nasconderà” il canone nella bolletta, è certamente la presunzione di possesso; presunzione che potrà essere superata con una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, da parte di coloro che affermeranno di non possedere alcun apparecchio televisivo; tenendo presente, però, che una falsa dichiarazione sfocerà nel penale: “Allo scopo di superare le presunzioni di cui ai precedenti periodi, a decorrere dall’anno 2016, non è ammessa alcuna dichiarazione diversa da quelle rilasciate ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, la cui mendacia comporta gli effetti, anche penali, di cui all’art. 76 del medesimo decreto, da presentare all’Agenzia delle entrate competente per territorio”.

Fonte: www.fiscopiu.it/Canone RAI in bolletta, si paga in dieci rate - La Stampa

La Corte costituzionale esclude l’applicazione della messa alla prova nei dibattimenti già aperti all’epoca della sua introduzione

Il Tribunale di Torino aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, analoga a quella di cui all'art. 15-bis, co. 1 della legge 11 agosto 2014, n. 118, preclude l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati di processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della legge 67/2014». Era stata prospettata - in particolare - la violazione degli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Cedu. In sostanza, si era denunciato il fatto che rimanessero esclusi dalla possibilità di accesso al nuovo istituto le persone soggette, alla data di entrata in vigore della disciplina sulla messa alla prova, ad un procedimento penale nel quale fosse già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento. Le censure si fondavano essenzialmente sulla considerazione degli effetti sostanziali della procedura (suscettibile com'è noto di condurre all'estinzione del reato, ex art. 464-septies cod. proc. pen.), tali da escludere la compatibilità di una scansione cronologica semplicemente regolata dal principio tempus regit actum. Una soluzione "estensiva" sarebbe stata imposta dal principio di uguaglianza, dal diritti alla difesa ed al giusto processo, dalla pretesa "illegittimità convenzionale" di limiti all'efficacia retroattiva della lex mitior superveniens.

La Corte costituzionale ha di fatto convalidato il presupposto interpretativo della questione, escludendo dunque che la sospensione potesse e possa essere disposta nei procedimenti già pervenuti, all'epoca di entrata in vigore della legge n. 67 del 2014,  oltre la soglia indicata nella norma censurata. Nel contempo, come già accennato, ha negato l'illegittimità della scelta legislativa, essenzialmente in base ad una considerazione della regola denunciata quale norma di diritto processuale, sia pur pertinente all'applicazione di una disciplina a carattere sostanziale. In particolare (nella prospettiva dell'uguaglianza e della ragionevolezza) è parsa evidente l'incompatibilità logica tra l'ipotesi dell'avvio di un procedimento del tutto alternativo al giudizio ordinario (del quale non a caso è disposta la sospensione) e l'innesto dello stesso  procedimento in una situazione già segnata dallo sviluppo dell'istruttoria dibattimentale, se non addirittura dalla pronuncia d'una sentenza concernente il merito dell'imputazione.

Per leggere la sentenza clicca qui:Consulta OnLine - Sentenza n. 240 del 2015

fonte: www.penalecontemporaneo.it

mercoledì 25 novembre 2015

#Alcoltest, rifiuto senza aggravanti

A forza di introdurre inasprimenti, di fatto si premia chi rifiuta di sottoporsi ai test per accertare la guida in stato di ebbrezza. Un effetto paradossale che emerge dalla lettura delle sentenze 46624 e 46625, depositate ieri, con le quali le Sezioni unite della Cassazione escludono che al rifiuto si possano applicare le stesse sanzioni “accessorie” che scattano nei casi più gravi di positività ai test. Tanto che, di fatto, le Sezioni unite “suggeriscono” di risolvere il problema contestando al conducente - quando possibile - non solo il rifiuto, ma anche quello di positività (sulla base di valutazioni dei sintomi che la persona mostra, in mancanza di test con etilometro o analisi del sangue).

I complessi problemi che caratterizzano la questione nascono dal fatto che il rifiuto (articolo 186, comma 7 del Codice della strada) è tendenzialmente punito con le stesse, pesanti sanzioni dell'ebbrezza grave (tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi/litro, articolo 186, comma 2, lettera c). Però poi ci sono fattispecie particolari in cui scatta un trattamento ancora più pesante, che però alla luce delle due sentenze depositate ieri sono da intendere come applicabili alla sola ebbrezza grave e non anche al rifiuto.

Queste fattispecie sono la guida di un veicolo che appartiene a un estraneo al reato (per la quale l'aggravamento della sanzione è rappresentato dal raddoppio del periodo di sospensione della patente) e l'aver causato un incidente (che comporta il raddoppio di tutte le sanzioni previste per il tipo di ebbrezza accertato). Le sentenze di ieri affrontano ciascuna una delle due fattispecie e premettono che i problemi d'interpretazioni sono dovuti al fatto che la normativa è stata cambiata più volte nel giro di pochi anni (dal 2007 al 2010) e senza un vero coordinamento.

fonte: www.ilsole24ore.com//Alcoltest, rifiuto senza aggravanti

Messaggio chiuso con una ‘b’ e puntini sospensivi. Lei si sente additata come donna di malaffare. Marito condannato

Inequivocabile e decisivo il contesto della vicenda e della frase, ossia i rapporti conflittuali tra i due coniugi. Ciò permette di considerare chiaro, seppur sottinteso, il significato della parola non scritta dall’uomo. Consequenziale la contestazione del reato di ingiuria (Cassazione, sentenza 44145/15).

Il caso

Svolta decisiva in Tribunale: i giudici condannano un uomo per «ingiuria» nei confronti della moglie, da cui si è separato. Fatale un messaggio inviato sul cellulare della moglie. In particolare, viene ritenuto chiarissimo il significato della lettera ‘b’ accompagnata da tre puntini sospensivi a chiusura dello scritto: così l’uomo ha voluto offendere la coniuge, definendola “b...tana”.

Decisivo, per i giudici, il contesto, ossia, da un lato, la conflittualità tra i due coniugi, e, dall’altro, la frase utilizzata dall’uomo, “Stai attenta a quello che fai tu b...”, frase sicuramente «non amichevole». E tale visione viene condivisa anche dai giudici della Cassazione: una volta ricostruito il «contesto», è corretta la percezione da parte della donna, sentitasi offesa dal messaggio del marito. Obiettivo dell’uomo era rivolgere una «ingiuria» alla coniuge, e quindi si può leggere «la lettera ‘b’ seguita dai puntini sospensivi» come un occultamento del termine “b...tana”.

Richiamo decisivo, anche per i giudici del ‘Palazzaccio’, alla complessa vicenda riguardante i coniugi, che «vivevano separati» e ai quali «erano stati affidati congiuntamente i figli minori» e che, «proprio a causa dell’affidamento», avevano avuto delle «divergenze», sfociate anche in una serie di messaggi ‘velenosi’. Tale contesto è rilevante, difatti, per «valutare la portata offensiva di una espressione verbale», anche se solo «sottintesa». Ciò perché, quando, come in questa vicenda, «il termine, maliziosamente non compiutamente espresso, sia oggettivamente identificabile come un’offesa», è possibile considerare concreto il «reato di ingiuria».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Messaggio chiuso con una ‘b’ e puntini sospensivi. Lei si sente additata come donna di malaffare. Marito condannato - La Stampa

L’estratto conto prova le ragioni del contribuente

Gli estratti dei conti correnti possono essere prova idonea a sostegno dell’impugnazione di un avviso di accertamento. Lo hanno ribadito i Giudici della Cassazione con l’ordinanza del 20 novembre 2015, n. 23826.

Il caso

Il contribuente aveva impugnato l’avviso di accertamento con il quale era stato rettificato in aumento il reddito di imposta relativo al 2001; tanto la Commissione tributaria provinciale che quella regionale avevano rigettato il suo ricorso, affermando come il contribuente non avesse dimostrato che dai conti correnti vi fossero state uscite finanziarie corrispondenti agli incrementi patrimoniali. “A norma dell’art. 38, comma sesto, del D.P.R. n. 600/1973 – hanno affermato i Giudici di Piazza Cavour – l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta”.

Ora, la disposizione prevede anche che tali redditi debbano risultare da una idonea documentazione. Cosa si intende per documentazione idonea? Per la Corte, essa è qualcosa di più della mera affermazione della disponibilità di ulteriori redditi: deve essere una prova documentale, basata “su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto”. E, per i Giudici, la prova richiesta può essere semplicemente quella degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, “idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame; quindi non il loro semplice transito nella disponibilità del contribuente”. Essendosi la sentenza di appello discostata da tali enunciati, è stata cassata.

Fonte: www.fiscopiu.it/L’estratto conto prova le ragioni del contribuente - La Stampa

lunedì 23 novembre 2015

#Giustizia, magistrati e giudici onorari pronti allo sciopero

L'Unione Nazionale Italiana Magistrati Onorari ha annunciato lo stato di agitazione in vista dei possibili tagli al fondo indennità di tutti i magistrati onorari e di pace, previsto dalla Riforma della giustizia, per l'anno 2016. «La giustizia - si spiega in una nota - è amministrata, in grande misura, da magistrati che non sono regolarmente retribuiti né godono di garanzie previdenziali ed assistenziali, eppure esercita le medesime funzioni di un magistrato professionale».

Malgrado un impegno rilevante sia in termini di quantita' che di qualità - spiega l'Unimo - «sembra che solo per la magistratura onoraria non ci siano risorse economiche sufficienti per valorizzarne la professionalità» e la riduzione del fondo per le indennità potrebbe «costringere i magistrati onorari a ridurre il proprio apporto alla amministrazione di giustizia».

Pm e giudici onorari dei tribunali civili e penali sono insomma pronti a incrociare le braccia dal 7 all'11 dicembre. Lo annuncia Paolo Valerio, presidente della Federmot - Federazione magistrati onorari di tribunale, in una lettera, indirizzata al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia. Nel comunicato si denuncia tra l'altro il mancato aggiornamento delle indennita' spettanti ai magistrati onorari: giudici e pm non togati che esercitano funzioni giurisdizionali eccetto quelle legate ai reati più gravi.

Fonte;www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2015-11-23/giustizia-magistrati-e-giudici-onorari-pronti-sciopero--180728.php

Lui guadagna quasi il doppio di lei, ma con un mutuo da mille euro al mese: niente mantenimento alla moglie

Sconfitta per una donna: niente assegno di mantenimento a suo favore. Non contestabile il maggior reddito del marito, ma quest’ultimo deve anche far fronte ogni mese a un mutuo, con una rata di quasi mille euro. Ciò riporta in equilibrio, in sostanza, le forze economiche dei due coniugi (Cassazione, ordinanza 22603/15).

Il caso

Decisivo il passaggio in Appello: lì, a corredo della «separazione» di una coppia, viene revocato « l’assegno di mantenimento» riconosciuto in primo grado a favore della donna e fissato in «200 euro» mensili. Soddisfazione per l’uomo. Rabbia per la moglie, che propone ricorso in Cassazione, contestando la decisione messa ‘nero su bianco’ in secondo grado. Secondo il legale della donna, in sostanza, i giudici hanno trascurato la «stridente» differenza nella «capacità reddituale» dei due coniugi. E in questa ottica vengono messi a confronto i «redditi mensili netti» della oramai ex coppia: lui guadagna «2mila e 600 euro», lei solo «mille e 400 euro».

Evidente la sproporzione, ma, aggiungono i giudici, a riportare in equilibrio la situazione è un «mutuo» a carico dell’uomo. Più precisamente, egli «è obbligato al pagamento di una rata mensile pari a 990 euro», relativa a «un mutuo che gli ha consentito di acquistare» dalla moglie «la metà della casa coniugale» e che, di conseguenza, ha permesso alla donna «di acquistare una casa di proprietà in cui abitare dopo la separazione». Corretta, quindi, la valutazione compiuta in Appello, concludono i giudici di Cassazione. Detto in maniera chiara, «i redditi spendibili dai due ex coniugi sostanzialmente si equivalgono e consentono ad entrambi una vita dignitosa e non sostanzialmente dissimile da quella condotta in costanza di matrimonio». Di conseguenza, è giusto escludere il presunto «diritto» della donna a «un assegno di mantenimento».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Lui guadagna quasi il doppio di lei, ma con un mutuo da mille euro al mese: niente mantenimento alla moglie - La Stampa

domenica 22 novembre 2015

Agenzia delle Entrate: il conferimento degli incarichi dirigenziali ai funzionari senza qualifica e senza concorso non rende nulli gli accertamenti

In base all’art. 42 dpr 600/1973, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. A seguito della evoluzione legislativa ed ordinamentale sono oggi "impiegati della carriera direttiva" ai sensi dell’art. 42 dpr 600/1973, art. 42, i "funzionari della terza area" di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17). E - in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributari - non occorre, ai meri fini della validità dell’atto, che i funzionari deleganti e delegati possiedano la qualifica di dirigente, ancorché essa sia eventualmente richiesta da altre disposizioni. Ove il contribuente contesti - anche in forma generica - la legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento ad emanare l’atto (art. 42 dpr 600/1972), è onere della Amministrazione che ha immediato e facile accesso ai propri dati fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonché della esistenza della delega in capo al delegato.

Per leggere la sentenza clicca qui:www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/13704.pdf

fonte: www.ilcaso.it

sabato 21 novembre 2015

Guida in stato di ebbrezza: revoca della patente al massimo per tre anni dalla commissione del reato

Nel caso più grave di guida in stato di ebbrezza la revoca della patente, di durata triennale, decorre dal giorno di commissione del reato e non dalla sentenza di patteggiamento. E' quanto emerge dalla sentenza della Seconda Sezione del T.A.R. Piemonte, del 14 ottobre 2015, n. 1415.

Il caso vedeva una donna, alla guida del proprio veicolo, in stato di ebbrezza, causare un incidente stradale, in violazione dell'art. 186, comma 2, lett. c), cod. strad., con conseguente sospensione cautelare della patente di guida.

A seguito di patteggiamento alla donna veniva applicata la pena di mesi quattro di arresto ed euro 1000 di ammenda, con beneficio della sospensione condizionale della pena, nonché le sanzioni amministrative della confisca della vettura e della revoca della patente di guida, secondo quanto disposto dall'art. 186, comma 2, lett. c), e comma 2-bis, cod. strad.

Secondo quanto disposto dall'art. 219, comma 3-ter, cod. strad., non è possibile conseguire una nuova patente prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato, nel caso di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti.

In proposito, l'Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione, con Relazione del 3 agosto 2010, ha affermato che “se a seguito della condanna per una delle contravvenzioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 sia stata disposta la revoca della patente, il condannato non possa conseguirne una nuova prima di tre anni dalla data di accertamento del reato e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza o del decreto di condanna”.

Il legislatore, secondo i giudici, considerando molto grave il fatto di chi causi un incidente in quanto gravemente ebbro, ha previsto che la patente debba essere immediatamente revocata dal Prefetto, nona vendo senso dover attendere molto tempo, ovvero sino alla fine del processo, per poter applicare la sanzione della revoca.

fonte: www.altalex.com//Guida in stato di ebbrezza: revoca della patente al massimo per tre anni dalla commissione del reato | Altalex

Imputato assolto: rifusione delle spese va chiesta al giudice penale

L'imputato assolto può chiedere il danno economico conseguente alla necessità di difendersi in giudizio solo al giudice penale. E' quanto emerge dall'ordinanza della Corte di Cassazione del 9 ottobre 2015, n. 20313.

Il caso vedeva i giudici di merito non negare, in linea di principio, che competente a provvedere sulla domanda di rifusione delle spese giudiziali sostenute in sede penale dal querelato assolto fosse il giudice penale, ma riteneva che il querelato avesse formulato non una domanda di rifusione delle spese giudiziali penali, ma una domanda di risarcimento del danno derivante dalla infondata querela proposta nei propri confronti, per la quale la legge non prevede alcuna competenza funzionale del giudice penale.

Secondo gli ermellini, tale voce di spesa costituisce un danno in senso economico e non giuridico; le spese processuali, tra tutte le conseguenze pregiudizievoli di un fatto illecito o di un inadempimento, continuano i giudici, sono le uniche cui la legge riserva una particolare disciplina negli artt. 91 e 92 c.p.c. Di conseguenza, assoggettare alla medesima disciplina il diritto al risarcimento del danno e quello alla rifusione delle spese processuali significherebbe abrogare le norme che regolano la competenza a provvedere sulle spese.

Una volta stabilito che le spese processuali, anche se sostenute per affrontare un giudizio provocato da un fatto illecito, restano soggette alla loro disciplina, viene affermato il principio secondo cui le spese sostenute dal querelato per difendersi in sede penale è dovuta alla competenza funzionale del giudice penale. Se non viene richiesta a quel giudice, non potrà essere richiesta al giudice civile in un separato giudizio.

fonte: www.altalex.com//Imputato assolto: rifusione delle spese va chiesta al giudice penale | Altalex

venerdì 20 novembre 2015

Ok alla confisca per la banca che opera interessi illegittimi

La banca finisce sotto inchiesta per usura aggravata, e il sequestro finalizzato alla confisca, dopo la denuncia di due aziende che sostenevano di aver pagato interessi oltre la soglia, è stato autorizzato. Questo nella sentenza del 17 novembre 2015, n. 45642, con la quale i Giudici della Cassazione hanno condannato la banca, la quale sosteneva come la confisca, e prima ancora il sequestro, poteva essere disposta solo se il debitore avesse rimborsato il capitale che gli era stato erogato, e corrisposto tanto gli interessi legittimi quanto quelli oltre soglia.

“Corretto è il richiamo all’assunto di questa Corte Suprema – si legge in sentenza – secondo il quale in tema di usura, il profitto confiscabile ai sensi dell’art. 644 c.p., ultimo comma (sull’usura, per l’appunto, ndr), identificandosi secondo la generale nozione di profitto del reato nell’effettivo arricchimento patrimoniale già conseguito, ed in rapporto di immediata e diretta derivazione causale dalla condotta illecita concretamente contestata, coincide con gli interessi usurari concretamente corrisposti”.

Tale principio, hanno illustrato gli Ermellini, deve essere completato con quanto emerso dalla sentenza menzionata, riassunto nella massima relativa secondo la quale devono essere intesi nel concetto di interessi usurari concretamente corrisposti anche quelli “eventualmente corrisposti”; e ciò anche con la consegna di titoli a credito, essendo invece irrilevante che questi ultimi siano stati utilizzati o riscossi. Gli Ermellini hanno evidenziato esattamente quanto denunciato dalle due aziende: nel rapporto banca-correntista, è evidente come gli interessi usurari siano stati effettivamente corrisposti, determinando per la banca il conseguimento di un profitto.

“In sostanza – hanno sottolineato i Giudici – se come è stato evidenziato, la concreta corresponsione degli interessi può anche consistere nell’emissione di un titolo di credito a favore del supposto usuraio ed indipendentemente dal fatto che detto titolo sia stato poi utilizzato o posto all’incasso, tale situazione è del tutto assimilabile a quella del rapporto tra correntista ed istituto bancario laddove attraverso la stipulazione del relativo contratto la banca finisce per contabilizzare a proprio favore la voce passiva degli interessi (nella specie usurari) a carico del cliente”.

Fonte: www.fiscopiu.it/Ok alla confisca per la banca che opera interessi illegittimi - La Stampa

giovedì 19 novembre 2015

Scappa dai ‘domiciliari’ e cade subito nelle mani delle forze dell’ordine: legittima la riduzione della pena

Fuga dai ‘domiciliari’, seguita da un immediato ripensamento. L’uomo si consegna subito alle forze dell’ordine. Legittima la riduzione della pena (Cassazione, sentenza 41951/15).

Pomo della discordia è la valutazione del comportamento dell’uomo. Quest’ultimo ha sì violato la misura degli «arresti domiciliari», ma si è prontamente «consegnato alle forze dell’ordine». Per i giudici di merito, però, tale azione non è stata «conseguenza di un moto spontaneo». E ciò legittima la mancata applicazione dell’«attenuante speciale», che comporta una diminuzione della «pena» quando «l’evaso si costituisce in carcere prima della condanna».

Pronta, in Cassazione, l’obiezione del legale dell’uomo: la «mancata spontaneità nel riconsegnarsi» alle forze dell’ordine non è requisito necessario per il riconoscimento dell’«attenuante». E tale sottolineatura è corretta, riconoscono i giudici del ‘Palazzaccio’: la norma del Codice Penale «non richiede uno stato psicologico particolare che accompagni la riconsegna». Difatti, la «attenuante» è applicabile «anche nell’ipotesi di evasione dagli arresti domiciliari, a condizione che chi si è allontanato dal luogo degli arresti si costituisca in carcere, ovvero si consegni ad un’autorità che abbia l’obbligo» di portarlo in carcere. E, viene aggiunto, non vi è alcuna incompatibilità con le «attenuante generiche» già riconosciute all’uomo.

Tutto ciò rende plausibile la «diminuzione della pena», concludono i giudici fornendo una ‘linea guida’ per la Corte d’Appello che dovrà riprendere in esame la vicenda. Decisiva l’eliminazione, con la condotta dell’uomo, delle «conseguenze negative del reato, rappresentate dal dispendio di tempo e di energie da parte della polizia giudiziaria per effettuare le ricerche e pervenire all’arresto» dell’evaso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Scappa dai ‘domiciliari’ e cade subito nelle mani delle forze dell’ordine: legittima la riduzione della pena - La Stampa

mercoledì 18 novembre 2015

Uccidere il ladro che fugge è reato? Le sentenze di merito nel caso Monella

Data la rilevanza - anche mediatica - della vicenda, si pubblicano di seguito le sentenze di merito del 'caso Monella'. La vicenda, come noto, ha ad oggetto l'uccisione, con un colpo di fucile sparato dalla propria abitazione, di un ladro che tentava di rubare una macchina. Al condannato il Presidente della Repubblica ha di recente concesso provvedimento di grazia con condono 'parziale' della pena inflitta.

Si ricorda inoltre che, essendo stato dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione contro la sentenza d'appello, quest'ultima ha trovato definitiva conferma.

Si può peraltro prevedere che tale vicenda costituisca uno spunto per futuri dibattiti - anche in ottica de iure condendo - sul tema dell'eccesso doloso nella legittima difesa e, in particolare, sul relativo trattamento sanzionatorio.

per leggere la sentenza di primo grado clicca qui:www.penalecontemporaneo.it/upload/1447861549Primo Grado Monella.pdf

per leggere la sentenza di appello clicca qui:www.penalecontemporaneo.it/upload/1447861445Corte Appello Monella.pdf

fonte: www.penalecontemporaneo.it

La mancata tempestiva diagnosi di malattia incurabile e le voci di danno risarcibili

Come noto, il medico che tramite il suo operato ha cagionato ad un paziente un danno ingiusto può essere sanzionato ex art. 1218 c.c. nonché ex art. 2043 c.c. Non sono solo queste, però, le uniche ipotesi in cui un medico può essere chiamato a rispondere del suo operato.

A tale proposito si cita una recente pronuncia della Corte di Cassazione, datata 20-08-2015, n. 16993. Nel caso di specie si erano infatti rivolti alla Suprema Corte gli eredi di una donna deceduta a causa di una grave forma di carcinoma all'utero, i quali agivano in giudizio richiedendo il risarcimento dei danni subiti in seguito alla tardiva diagnosi della malattia.

Il ginecologo della donna, non aveva infatti agito con la diligenza richiesta, operando un insufficiente approccio diagnostico: a causa della sua negligenza il medico non era infatti stato in grado di diagnosticare il carcinoma, sebbene fosse già presente al tempo delle visite operate dal professionista.

Nonostante la riconosciuta assenza di diligenza, la Corte di Appello aveva precedentemente respinto la richiesta avanzata dagli eredi sostenendo che anche se la malattia fosse stata correttamente diagnosticata, poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico della paziente, essendo essa affetta da una forma tumorale particolarmente maligna e aggressiva, che l'avrebbe comunque condotta alla morte. Per tale ragione l'adita Corte era giunta ad escludere la sussistenza del nesso causale tra l'aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario, negando ogni pretesa risarcitoria.

Tale assunto è stato invece in toto respinto dalla Suprema Corte la quale è giunta a ravvisare più di una voce di danno risarcibile in capo agli eredi.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la tardiva diagnosi del processo morboso terminale, aveva prima di tutto determinato l'impossibilità di attuare tempestivamente un intervento c.d. palliativo, il quale avrebbe permesso alla paziente di alleviare il dolore. Una prima voce di danno doveva quindi essere ravvisata nella sofferenza patita dalla donna e che avrebbe potuto essere alleviata o comunque ridotta tramite una puntuale diagnosi.

Ulteriore danno risarcibile era individuabile nella perdita per la paziente "della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo la chance di conservare, durante quel decorso, una "migliore qualità della vita"(Cass. Civ.,sez. III, sent., 20-08-2015, n. 16993).

La Corte ha inoltre in conclusione precisato che in tale specifica ipotesi il danno per la paziente sarebbe consistito anche nella mera impossibilità di scegliere "cosa fare" " per fruire della salute residua fino all'esito infausto, anche rinunziando all'intervento o alle cure per limitarsi a consapevolmente esplicare le proprie attitudini psico-fisiche in vista e fino all'exitus"(Cass. Civ.,sez. III, sent., 20-08-2015, n. 16993).

Innegabile quindi la sussistenza di un nesso causale tra la con condotta colpevole del medico e i plurimi pregiudizi sofferti dalla paziente, tutti meritevoli di congruo risarcimento.

fonte: www.ilsole24ore.com//La mancata tempestiva diagnosi di malattia incurabile e le voci di danno risarcibili

E' lecito attribuire al lavoratore mansioni inferiori se l’unica alternativa è il licenziamento

Deve ritenersi valido il patto di demansionamento che, ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni, e, conseguentemente, retribuzione, inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito: in tal caso, infatti, prevale l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 del codice civile. Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza 22029/15.

Il caso

Due dipendenti di Poste Italiane convenivano in giudizio la società datrice di lavoro per vederla condannata a reintegrarli nelle precedenti mansioni tecniche o ad assegnare loro altre mansioni tecniche di contenuto equivalente, e a risarcire il danno derivante dal demansionamento consistito nell’essere stati adibiti a mansioni di sportello o comunque ad altre gestionali dell’area operativa in cui erano inquadrati. Di segno diametralmente opposto le decisioni dei giudici di merito: nonostante la richiesta avesse trovato accoglimento in primo grado, infatti, la decisione veniva completamente riformata in appello. Tale ultima pronuncia viene quindi impugnata davanti al Supremo Collegio dai due dipendenti.

È valido il demansionamento finalizzato ad evitare il licenziamento. Gli Ermellini hanno preliminarmente ribadito che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità,è valido il patto di demansionamento che ai soli fini di evitare un licenziamento, attribuisca al lavoratore mansioni, e, conseguentemente, retribuzione inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, prevalendo in tal caso l’interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro su quello tutelato dall’art. 2103 c.c.. Il patto di demansionamento, in tal caso, è valido non solo laddove sia promosso dalla richiesta del lavoratore – che deve manifestare il suo consenso non affetto da vizi della volontà –, ma anche quando l’iniziativa venga presa dal datore di lavoro, purché vi sia il consenso del lavoratore e sussistano le condizioni che avrebbero legittimato il licenziamento in mancanza dell’accordo.

Nel caso di specie, la Corte di merito, secondo i Giudici di Piazza Cavour, ha positivamente accertato, con motivazione congrua e logica, che il demansionamento rappresentava l’unica alternativa praticabile ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguenza che nessuna censura può essere mossa alla pronuncia impugnata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /E' lecito attribuire al lavoratore mansioni inferiori se l’unica alternativa è il licenziamento - La Stampa

lunedì 16 novembre 2015

Omessi versamenti, è evasione anche se le rate sono parzialmente pagate

Non importa che il debito verso l’Erario sia stato parzialmente saldato: ciò non basta per estinguere il reato di evasione dell’IVA, che costituisce dolo generico e non specifico. Insomma, la buona volontà dimostrata con il pagamento di alcune rate non conta.

È questa la posizione della Corte di Cassazione nella sentenza depositata il 10 novembre 2015, n. 45033: i Giudici del Palazzaccio hanno accolto il ricorso contro un contribuente; l’accusa si era opposta al dissequestro dei beni dell’indagato, accusato di sottrazione fraudolenta e di evasione IVA, come decretato dal Tribunale di appello. Hanno osservato a tal proposito gli Ermellini che il reato di cui all’art. 10-ter del D.Lgs. 74/2000 (per l’omesso versamento di IVA, punito con la reclusione da sei mesi a due anni) è una fattispecie a “dolo generico”, e non “specifico”: l’elemento soggettivo, in sostanza, è “la coscienza e volontà di presentare una dichiarazione IVA ed omettere il versamento entro il termine stabilito delle somme in essa indicate, nella consapevolezza che il tributo evaso supera la soglia di punibilità individuata dalla disposizione incriminatrice, a nulla rilevando eventuali ulteriori motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo”.

Il Tribunale di appello aveva però precedentemente basato il suo giudizio osservando come il contribuente avesse comunque pagato l’IVA per il 2010, e avesse versato ratealmente il debito per gli anni successivi; ciò però deve essere rivisto: l’ordinanza impugnata è stata annullata e rimandata al Tribunale di appello.

Fonte: www.fiscopiu.it/Omessi versamenti, è evasione anche se le rate sono parzialmente pagate - La Stampa

Pc, email e rete informatica aziendali per uso personale: eccessivo il licenziamento

Salvo il posto di lavoro per il dipendente che ha approfittato degli strumenti messigli a disposizione dall’azienda. Evidente l’abuso compiuto dall’uomo, che ha utilizzato in modo improprio computer e posta elettronica, ma è eccessivo il licenziamento deciso dalla società (Cassazione, sentenza 22353/15).

Il caso

Visione opposta, quella dei giudici di merito, rispetto all’ottica adottata dall’azienda italiana. Di conseguenza, viene annullato il licenziamento del lavoratore. Sia chiaro, nessun dubbio sulla condotta dell’uomo, il quale ha utilizzato «in modo improprio» gli «strumenti di lavoro aziendali», ossia «personal computer in dotazione, reti informatiche aziendali e casella di posta elettronica». Tali «addebiti», però, secondo i giudici, andavano puniti con una «sanzione conservativa», come da contratto. Anche perché, viene aggiunto, non è emerso che «l’utilizzo personale della posta elettronica e della navigazione in internet» abbiano determinato «una significativa sottrazione di tempo all’attività di lavoro, né il blocco del lavoro, con grave danno per l’attività produttiva».

Ora, nonostante le obiezioni mosse dai legali della società, viene ribadita l’eccessiva durezza della misura adottata nei confronti del lavoro. Irrilevante anche il richiamo fatto dall’azienda alle «informative» e ai «molteplici preavvisi» con cui veniva chiesto ai dipendenti «un uso più attento della strumentazione aziendale». Ciò perché «il riferimento alle disposizioni del datore di lavoro» non prospetta «una violazione di obblighi contrattuali, rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento». Complessivamente, anche per i Giudici della Cassazione è da escludere «la particolare gravità del comportamento addebitato» al lavoratore. E va confermato, di conseguenza, l’annullamento del licenziamento.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Pc, email e rete informatica aziendali per uso personale: eccessivo il licenziamento - La Stampa

domenica 15 novembre 2015

Ritenute omesse, fino a 10mila euro il mancato versamento all’Inps non è più reato

L’omesso versamento di ritenute previdenziali fino a 10.000 euro non costituirà più reato ma sarà punito con una sanzione da 10mila e 50mila euro. A prevederlo è il decreto legislativo attuativo della legge delega sulla depenalizzazione approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso.

Il reato

L’articolo 2, comma 1, del Dl 462/1983 prevede che le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti debbono essere versate e non possono essere portate a conguaglio con le somme anticipate dal datore di lavoro ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali, e regolarmente denunciate alle gestioni stesse, tranne che a seguito di conguaglio tra gli importi contributivi a carico del datore di lavoro e le somme anticipate risulti un saldo attivo a favore del datore di lavoro.

L’omesso versamento di tali ritenute è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Il datore di lavoro non é punibile se provvede al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.

La denuncia di reato é presentata o trasmessa senza ritardo dopo il versamento ovvero decorso inutilmente il termine in questione.

La depenalizzazione

Con la legge 67/2014 il Parlamento ha conferito delega al Governo per la riforma della disciplina sanzionatoria di taluni reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative e civili. Tra le fattispecie da depenalizzare la delega ha previsto la trasformazione in illecito amministrativo del reato di omesso versamento in questione a condizione che non ecceda il limite complessivo di 10mila euro annui e preservando comunque la possibilità per il datore di lavoro di non rispondere neanche amministrativamente, se provvede al versamento entro il predetto termine di tre mesi.

In tribunale

Nell’attesa dell’emanazione dei decreti delegati (entro 18 mesi dall’entrata in vigore della legge) alcuni Tribunali avevano ritenuto già di fatto depenalizzata la violazione penale in questione se di importo non superiore ai 10mila euro, sul presupposto, in estrema sintesi, che già una legge dello Stato ha manifestato la volontà di non perseguire più penalmente tali illeciti. Tuttavia la Corte di Cassazione (tra tutte la sentenza 38080/2014) ha ritenuto che la fattispecie è tuttora prevista come reato, in quanto la legge delega 67/2014 si è limitata a stabilire una delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie, non apportando in nessun modo modifiche alla figura del reato in questione, atteso che tale funzione è affidata alla futura decretazione delegata. Ora la questione viene definitivamente risolta.

Il favor rei

Secondo la nuova norma se l’importo omesso non è superiore a 10mila euro annui, si applica la sanzione amministrativa da 10mila a 50mila euro. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.

Per espressa previsione le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o decreto divenuti irrevocabili.

Nel caso in cui i procedimenti siano stati definiti con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Ai fatti commessi in passato non può essere applicata una sanzione amministrativa per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale, pari a 250 euro o frazione di pena pecuniaria per ogni giorno di pena detentiva.

fonte: www.ilsole24ore.com//Ritenute omesse, fino a 10mila euro il mancato versamento all’Inps non è più reato - Il Sole 24 ORE

La soluzione non giudiziale delle controversie nelle comunicazioni: l’evoluzione della disciplina

 Il crescente ruolo che la soluzione stragiudiziale delle controversie sta riscuotendo all’interno del nostro ordinamento potrebbe far emergere come l’ordinamento giuridico italiano «si è spinto più lontano rispetto al tradizionale modo d’intendere la separazione delle funzioni, che si fa risalire a Montesquieu». Questa solo una delle riflessioni svolte da Beatrice Bertarini - assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’economia dell’Università di Bologna - che, con il suo lavoro, ha voluto porre l’attenzione sulle procedure per la soluzione non giudiziale delle controversie nel settore delle comunicazioni che il legislatore nazionale ha disciplinato attraverso l’emanazione di leggi ad hoc.

Lo studio a firma della dottoressa Beatrice Bertarini, qui allegato, si propone di analizzare come la soluzione non giudiziale delle controversie nel settore delle comunicazioni sia progressivamente mutata sia attraverso previsioni del legislatore nazionale sia attraverso specifici provvedimenti dell’Autorità di settore. «Ciò che però appare di estremo interesse per la nostra ricerca sono le previsioni normative inerenti i soggetti incaricati della soluzione non giudiziale delle controversie e l’importanza che la soluzione non giudiziale delle controversie assume attraverso le modifiche che la normativa nazionale più recente ha apportato al Codice del consumo».

Nel settore delle comunicazioni, sottolinea nella sua premessa l’autrice, anche le norme comunitarie «hanno ribadito la scelta di arricchire l’offerta di giustizia. Esse disgiungono la funzione di risoluzione delle controversie dalla giurisdizione. Impongono agli Stati membri di rendere esperibili rimedi d’altro tipo, come la conciliazione e un arbitrato sui generis (non alternativo alla giurisdizione)». Da ciò discende che «rientra a pieno diritto tra gli strumenti di risoluzione delle controversie alternativi sia al giudice che all’arbitrato che si basano sull’idea comune di sostituire la pronuncia di un organo giurisdizionale con accordi tra le parti in conflitto in ordine a soluzioni che possono risultare soddisfacenti per entrambi i litiganti».

Qui l’approfondimento della dott.ssa Beatrice Bertarini:www.dirittoegiustizia.it/allegati/PP_CIV_comunicazioni_bertarini_s.pdf

sabato 14 novembre 2015

Stop a 60 reati e migliaia di processi #depenalizzazione

Alla fine la depenalizzazione è cosa fatta. Il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare, i testi dei due decreti legislativi che, sul filo di lana (la scadenza era fissata per martedì), danno corso alla delega contenuta nella legge n. 67/14. In base alle stime fatte dal ministero della Giustizia sono una sessantina le fattispecie che escono dall’area della rilevanza penale per essere sanzionate solo in via amministrativa.

Quanto all’impatto sui fascicoli, è difficile quantificarlo adesso, però da via Arenula, solo per il reato di omesse ritenute al di sotto della soglia di 10.000 euro si parla di migliaia e migliaia di fascicoli che non verrebbero più trattati sul piano penale e di 30.000 procedimenti al Gip per alcuni reati di competenza del giudice di pace (ingiurie, soprattutto, e poi sottrazione di cose comuni e appropriazione di cose smarrite) .

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al termine del Consiglio dei ministri, ha fatto riferimento non solo all’alleggerimento dei carichi di lavoro per gli uffici, in particolare per le Procure alle prese comunque con un obbligo, sia pure temperato di esercizio dell’azione penale, ma anche alla riduzione del numero delle prescrizioni e al maggiore gettito per lo Stato. Su quest’ultimo fronte, in realtà, il mix è tra maggiori entrate che arriveranno dalla previsione dell’applicazione di una sanzione pecuniaria civile da affiancare in alcuni casi al risarcimento del danno e risparmi che arriveranno da un minore numero di procedimenti soggetti al patrocinio a spese dello Stato.

Ma sulle questioni aperte il Consiglio dei ministri ha deciso di non decidere, rinviando per il momento alla discussione parlamentare l’approfondimento. Alla fine della quale, però, prima di licenziare definitivamente i testi, una scelta andrà fatta e sciolto in un senso o nell’altro il nodo della rilevanza penale da lasciare o cancellare agli attuali reati di clandestinità, mancato rispetto dell’autorizzazione alla coltivazione di piante da cui derivare stupefacenti e disturbo del riposo delle persone.

Con il primo decreto legislativo si provvede a depenalizzare i reati sanzionati con la sola pena pecuniaria contenuti in leggi speciali e di alcuni previsti dal Codice penale (per esempio gli atti osceni, che verranno puniti con un massimo di 30mila euro invece dei tre anni di carcere, e quelli contrari alla pubblica decenza, le pubblicazioni e gli spettacoli osceni, l’abuso della credulità popolare, le rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive).

Prevista la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi, da 5.000 a 30.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a un anno, da 10.000 a 50.000 per i delitti e le contravvenzioni puniti con un pena detentiva superiore ad un anno.

Nel secondo decreto trova spazio l’abbinamento della misura pecuniaria civile al risarcimento del danno per una serie di reati. La persona offesa potrà così ricorrere al giudice civile per il risanamento del danno. Il magistrato, accordato l’indennizzo, per alcuni illeciti stabilirà anche una sanzione pecuniaria che sarà incassata dall'erario dello Stato. Il catalogo degli illeciti civili comprende l’ingiuria, il furto del bene da parte di chi ne è comproprietario e quindi in danno degli altri comproprietari, l’appropriazione di cose smarrite: per questo gruppo di illeciti la sanzione va da cento a ottomila euro.

Raddoppia, invece, la sanzione civile prevista per gli illeciti relativi all’uso di scritture private falsificate o la distruzione di scritture private.

fonte: www.ilsole24ore.com//Stop a 60 reati e migliaia di processi - Il Sole 24 Ore

Il reato di violenza assistita

Il reato di violenza assistita è previsto nel nostro codice penale quale circostanza aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia introdotto sulla scia della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti della donna e la violenza domestica - Instambul 11 maggio 2011 – che all'art. 46 quelle circostanza del reato, quando non ne sia elemento costitutivo, l'aver commesso l'evento delittuoso ai danni di un bambino o in sua presenza.

A seguire, nel nostro ordinamento, il d. l. 14 agosto 2013, n. 93 sulle disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere poi convertito nella legge 15 ottobre 2013 n. 119, ha introdotto il n. 11 quinquies all'art. 61 c.p. il quale afferma che sia circostanza aggravante nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all'art. 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni 18 ovvero in danno di una persona in stato di gravidanza.

Esemplificativo potrebbe essere il caso di Tizia la quale ha subito per anni maltrattamenti fisici e psicologici da parte del compagno Caio e la figlia Tizietta ha assistito inerme a dette violenze. Il Sig. Caio è stato condannato dal Tribunale penale e sta scontando la misura restrittiva degli arresti domiciliari. Al contempo, Tizietta ha intrapreso un percorso psicologico per superare il grave trauma subito a causa della violenza perpetrata dal padre nei confronti della madre.

In tale fattispecie concreta occorre chiedersi se il minore sia specificamente ed effettivamente tutelato nel nostro ordinamento quando la parte offesa dal reato di cui all'art. 572 c.p. risulta essere la madre della minore.

Tale circostanza aggravante si concreta quando le continue violenze fisiche, verbali, psicologiche, economiche e della dignità personale perpetrate nei confronti della parte offesa sono avvenute spesso e anche in danno del minore il quale, assistendo alle violenze in oggetto, ha subito ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo per tutto il tempo in cui è minorenne.

A tale proposito, emblematica è la definizione fornita dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso all'Infanzia) la quale sostiene che per violenza assistita da minori in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Inoltre, il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente quando questi avvengono nel suo campo percettivo e/o indirettamente quando il minore ne è a conoscenza.

Da questa definizione, emerge ciò che l'art. 61 c.p. n. 11 quinquies e la Convenzione di Istanbul hanno rilevato: si ha violenza assistita non solo quando il minore vede e vive direttamente sul genitore le percossa, gli insulti e le minacce, le sofferenze cui il genitore è esposto, ma anche se queste violenze, pur non avvenendo direttamente innanzi agli occhi del minore sono da lui conosciute attraverso la percezione dei suoi effetti.

Le ripercussioni sui minori della violenza assistita, devono essere il frutto di una deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza verso gli elementari ed insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi, nonché realizzati in violazione dell'art. 147 c.c., in punto di educazione e istruzione al rispetto delle regole minimali del vivere civile, cui non si sottrae la comunità familiare regolata dall'art. 30 della Carta costituzionale e che sono puntualmente violati, nel caso di specie, dal Sig. Tizio.

Inizialmente, ci si chiedeva se nel nostro ordinamento il minore sia tutelato quando assiste a violenza diretta nei confronti di un genitore, subendone le gravi ripercussioni appena citate. In risposta, chi scrive ritiene di poter affermare che il nostro ordinamento ha previsto la violenza assistita quale aggravante del delitto del reato di maltrattamenti in famiglia ma che la strada sia ancora molto lunga per la sua concreta attuazione soprattutto nella sensibilità e quindi nel riconoscimento e nel fronteggiamento di tale forma di violenza a danno dei minori.

Questa difficoltà emerge chiaramente sia nella cultura comune -rami parentali, genitori, amici – e in particolare tra le figure che a diverso titolo si occupano della famiglia in conflitto quali magistrati, avvocati, insegnanti e assistenti sociali. Infatti, il reato della violenza assistita occupa diversi ambiti giudiziari quale il tribunale ordinario penale, il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario civile, e l'ambito pedagogico educativo-psicologico-psichiatrico-sociale. Questi diversi spazi di competenza, sono interconnessi tra di loro come anelli di una catena la quale, se dovesse spezzarsi, come spesso accade, provocherebbe conseguenze nefaste in ambito famigliare. I primi a pagarne le conseguenze sono i minori che restano spesso vittime inascoltate in quanto ad oggi, molte volte, non sussiste una concreta riparazione ai danni subiti dal fanciullo.

fonte: www.ilsole24ore.com//Il reato di violenza assistita

Mortale in A13, due camionisti indagati per omicidio colposo

Due camionisti sono indagati per omicidio colposo per l’incidente tra quattro mezzi pesanti avvenuto in autostrada A13 che ha causato la morte di uno dei conducenti, il 60enne di Macerata Quinto Pittori. Si tratta del 51enne ungherese S.K., difeso dall’avvocato Emiliano Mancino, e del 40enne P.A., un italiano residente a Verona.

L’incidente è avvenuto mercoledì scorso attorno alle 9.20, nel tratto tra Occhiobello e Ferrara Nord dell’A13, in condizioni meteo di fitta nebbia.

Mercoledì 18 novembre la procura (pm Di Benedetto) disporrà gli accertamenti tecnici (incaricato l’ingegner  Francesco Rendine) che serviranno a ricostruire nel dettaglio la dinamica del sinistro.

Dopo il terribile incidente – che oltre a causare la morte di un camionista e il ferimento non grave di altre tre persone ha determinato la chiusura del tratto al traffico e lunghe code – la polizia stradale di Altedo ha proceduto sl sequestro dei quattro camion coinvolti, un Iveco, un Mercedes, un Volvo e uno Scania.

fonte: www.estense.com//Mortale in A13, due camionisti indagati per omicidio colposo | estense.com Ferrara

venerdì 13 novembre 2015

Ferrara: acquisti non registrati, il questore chiude un ‘compro oro’

Licenza sospesa per una settimana ai titolari del negozio ‘compro oro’ Blue Gold, in corso Porta Po 161/b, che secondo gli agenti della polizia di Stato avrebbero comprato diversi gioielli e oggetti preziosi, rilasciando regolari fatture, ma senza trascrivere le operazioni nei registri dell’attività.

L’irregolarità relativa a sole cinque operazioni è emersa il 28 ottobre durante un controllo del personale della divisione amministrativa della questura, che ha effettuato alcune verifiche sui registri delle operazioni giornaliere. L’attività, che riaprirà il 20 novembre, oltre alla sospensione della licenza dovrà anche pagare una sanzione di 308 euro.

La titolare dell’esercizio, tramite il suo legale, l’avvocato Emiliano Mancino, fa sapere che, pur nella correttezza dell’operato della questura, per un’infrazione lieve come quella rilevata ritiene eccessivo il provvedimento della sospensione, soprattutto in un periodo di crisi come quello che sta attraversando l’intera economia.

fonte: www.estense.com//Acquisti non registrati, il questore chiude un ‘compro oro’ | estense.com Ferrara

giovedì 12 novembre 2015

Via libera alla banca dati delle morosità telefoniche intenzionali

Il Garante privacy ha dato l’ok alla creazione di una banca dati delle morosità telefoniche intenzionali. La banca dati si chiamerà S.I.Mo.I.Tel. - acronimo di Sistema Informativo sulle morosità intenzionali nel settore della telefonia -, e censirà persone fisiche e giuridiche, enti, associazioni, titolari di ditte individuali e liberi professionisti non in regola con i pagamenti delle bollette telefoniche relative ai pacchetti comprensivi di abbonamento e fornitura di smartphone o tablet, mentre non potranno esservi inseriti gli utenti con morosità dovute a ritardi occasionali.

I dati sulla morosità potranno essere inseriti nel sistema solo al contemporaneo verificarsi delle seguenti condizioni: risoluzione del contratto da non meno di tre mesi; morosità superiore a 150 euro per singolo operatore; fatture non pagate nei primi sei mesi successivi alla stipula del contratto; assenza di altri contratti in regola con lo stesso operatore.

Prima di essere inserito nel sistema, inoltre, il cliente dovrà essere avvertito dall’operatore telefonico dell’imminente iscrizione. La banca dati sarà aperta alla consultazione per gli operatori, che potranno accedervi prima dell’attivazione di un nuovo contratto, al fine di contrastare il fenomeno del c.d. “turismo telefonico”, per cui gli utenti passano da un operatore all’altro lasciando dietro di sé bollette insolute, nonostante l’acquisto di dispositivi di significativo valore economico. Nel sistema potranno essere trattate solo informazioni riguardanti i mancati pagamenti del cliente, ma non saranno disponibili dati sensibili o giudiziari. Le informazioni sui pagamenti non regolarizzati saranno conservate per 36 mesi e poi verranno cancellate automaticamente, e i dati raccolti non potranno essere usati per altre finalità. Il trattamento dei dati contenuti nel S.I.Mo.I.Tel. potrà essere effettuato dal gestore del Sistema e dagli operatori telefonici anche senza il consenso degli interessati.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Via libera alla banca dati delle morosità telefoniche intenzionali - La Stampa

Minacce e molestie sono atti persecutori anche se avvengono in occasione di incontri casuali

In tema di atti persecutori, è irrilevante che l’occasione per la consumazione di qualcuno, o anche di tutti, gli atti della serie persecutoria sia stata meramente casuale: ciò che conta, infatti, è solo la consapevolezza da parte dell'agente dell'abitualità della condotta. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza 43085/15.

Il caso

Il Tribunale del riesame annullava il provvedimento con cui era stata applicata ad un uomo la misura cautelare della custodia in carcere per il reato di atti persecutori. Contro l'ordinanza ricorre il Procuratore della Repubblica, lamentando che il provvedimento impugnato, pur ritenendo sussistenti le ripetute minacce e molestie ai danni della persona offesa, aveva escluso che fosse integrato il requisito della reiterazione della condotta necessario per la sussistenza del delitto di atti persecutori.

Sul punto, gli Ermellini hanno precisato per escludere che le condotte poste in essere dall’imputato possano integrare il requisito di reiterazione che caratterizza la condotta tipica del reato in contestazione – realizzabile, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, anche attraverso la consumazione di due soli atti di molestia o minaccia -, i giudici del riesame avrebbero dovuto spiegare, senza limitarsi all’affermazione apodittica, per quali ragioni il tempo trascorso tra i singoli atti debba ritenersi di per sé indicativo della loro autonomia e non sintomo dell’abitualità del comportamento dell’indagato, soprattutto in forza della constatazione che la norma incriminatrice a tal fine non richieda in alcun modo che lo stillicidio di intrusioni nella vita della vittima del reato abbia particolari cadenze.

Inoltre, continuano i Giudici di Piazza Cavour, il Tribunale ha sostenuto il difetto di tipicità della condotta sul presupposto dell’asserita casualità di alcuni degli incontri tra il ricorrente e la persona offesa, che hanno costituito l’occasione per realizzare alcuni degli atti persecutori. I giudici del riesame, dunque, hanno sostanzialmente affermato che minacce e molestie, per essere tipiche, devono essere in qualche modo preordinate. In realtà tale requisito di tipicità non è in alcun modo previsto dalla norma incriminatrice, né può ritenersi riflesso dell’elemento soggettivo richiesto per la sussistenza del reato.

La giurisprudenza del Supremo Collegio, ricordano infatti dal Palazzaccio, ha chiarito che «l’elemento soggettivo degli atti persecutori è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza dell’idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice»; l’elemento soggettivo, inoltre, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo «un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica», anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi. È pertanto irrilevante che l’occasione per la consumazione di qualcuno, o anche di tutti, gli atti della serie persecutoria sia stata meramente casuale: ciò che conta, infatti, è solo la consapevolezza da parte dell'agente dell'abitualità della condotta. Per tutte le ragioni sopra esposte, la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Minacce e molestie sono atti persecutori anche se avvengono in occasione di incontri casuali - La Stampa

Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani

Sulla scia della sentenza n. 96 del 2015, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 229/2015 ha bocciato la punibilità della condotta di selezione degli embrioni nei casi in cui sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili. Permane invece il divieto di soppressione degli embrioni soprannumerari affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne l’impianto nell’utero della donna.

Il caso

Il Tribunale di Napoli sollevava una duplice questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nonché per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU – ad oggetto l’art. 13, commi 3, lett. b), e 4, e l’art. 14, commi 1 e 6, l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui contemplano, quali ipotesi di reato rispettivamente, la selezione eugenetica e la soppressione degli embrioni soprannumerari, «senza alcuna eccezione», non facendo, quindi, salva l’ipotesi in cui una tale condotta «sia finalizzata all’impianto nell’utero della donna dei soli embrioni non affetti da malattie genetiche o portatori sani di malattie genetiche» e la soppressione concerna, conseguentemente, gli embrioni soprannumerari affetti, invece, da siffatte malattie.

Ad avviso del remittente, sanzionando penalmente anche la condotta dell’operatore medico volta a consentire il trasferimento nell’utero della donna dei soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche, l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, l. n. 40 del 2004, si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con il principio di ragionevolezza e con il diritto alla salute, per contraddizione rispetto alla finalità di tutela della salute dell’embrione di cui all’art. 1 della medesima legge n. 40.

La norma violerebbe altresì l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso, Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sentenza del 28 agosto 2012, § 57).

Ad analoghe censure si esporrebbe l’art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui parallelamente vieta e penalmente sanziona la condotta di soppressione degli embrioni, anche ove trattasi di embrioni soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna.

Secondo il remittente, la norma censurata violerebbe il diritto di autodeterminazione, garantito dall’art. 2 Cost., e il principio di ragionevolezza, rispetto al disposto dell’art. 6 l. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), che consente agli operatori sanitari di praticare l’aborto terapeutico – anche oltre il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza – in presenza di “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro.

Inoltre, la disposizione in esame si porrebbe parimenti si porrebbe in contrasto con il richiamato art. 8 della CEDU, con conseguente violazione dell’art. 117, comma 1, Cost.: assoggettare a sanzione penale l’operatore medico che proceda alla soppressione degli embrioni soprannumerari affetti da malattie genetiche, costringerebbe le coppie che fanno ricorso alle tecniche di PMA, e che volessero evitare il procreare un figlio affetto da malattia genetica, a subire in ogni caso l’impianto degli embrioni affetti da malattie genetiche – con evidente pregiudizio della salute dalla donna se non sotto il profilo fisico, quantomeno da un punto di vista psicologico – nonché a seguire necessariamente la strada dell’interruzione volontaria della gravidanza.

La decisione della Corte

La Corte ha ritenuto fondata – non poteva non farlo - la prima delle questioni sollevate.

La Corte non ha potuto che trarre le conseguenze dalla situazione normativa venutasi a creare con la recente sentenza n. 96 del 2015; con quella decisione, infatti, è stato dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 […], accertate da apposite strutture pubbliche».

E «ciò al fine esclusivo», come chiarito in motivazione, «della previa individuazione», in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, «di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro», alla stregua del suddetto “criterio normativo di gravità”.

Se, quindi, per effetto dell’intervento additivo della Corte, è divenuto lecito il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, esso, di conseguenza, per il principio di non contraddizione, non può «essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante».

La norma, pertanto, è stata dichiarata illegittima «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela della maternità e sulla interruzione della gravidanza) e accertate da apposite strutture pubbliche».

La Corte ha invece dichiarato non fondata la seconda questione sollevata dal tribunale campano.

La Corte ha preso le mosse dal proprio costante indirizzo in relazione al sindacato delle scelte circa l’individuazione delle condotte penalmente punibili: la discrezionalità del legislatore può essere censurata solo ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (tra le più recenti, cfr. sentenze n. 81 del 2014, n. 273 del 2010, n. 364 del 2004, ordinanze n. 249 del 2007, n. 110 del 2003, n. 144 del 2001).

Ad avviso dalla Corte, un vizio del genere non è ravvisabile nella scelta del legislatore di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita – ciò che propriamente il rimettente denuncia – agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica.

Netto il giudizio della Corte: la norma è posta alla tutela voglia tutelare la dignità dell’embrione, «la cui malformazione non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in «numero […] superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto»

L’embrione – sano o malato - «non è certamente riducibile a mero materiale biologico» e la sua tutela, come già affermato nella sentenza n. 151 del 2009, trova copertura costituzionale nel precetto generale di cui all’art. 2 Cost.; si tratta di una tutela che non è assoluta, potendo cedere in passo «solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti».

Una situazione che la Corte non ha ravvisato nel caso di specie: «il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova però giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».

Infine, la Corte ha rigettato la questione anche in relazione agli altri parametri evocati «per l’assorbente ragione che il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta, per quanto detto, l’impianto coattivo nell’utero della gestante».

fonte: www.quotidianogiuridico.it//Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani | Quotidiano Giuridico

mercoledì 11 novembre 2015

Hamburger comprati freschi e surgelati, ma senza "abbattitore termico": sanzionata la titolare del bar

Operazione raffazzonata, quella realizzata dalla proprietaria di un bar, la quale ha pensato bene di surgelare ben 50 chilogrammi di hamburger, acquistati freschi, però non ricorrendo allo strumento necessario, cioè l’abbattitore termico. Ciò non garantisce al consumatore prodotti alimentari in condizioni adeguate. E' perciò logica e legittima, l’ammenda decisa nei confronti della titolare dell’esercizio commerciale (Cassazione, sentenza 40772/15).

Il caso

La titolare del bar sostiene non vi siano stati «rischi concreti per la salute pubblica», ossia dei clienti dell’esercizio commerciale. Ma l'obiezione è ritenuta non plausibile dai giudici della Cassazione, i quali ricordano che «non vi è la necessità di un cattivo stato di conservazione, riferito alle caratteristiche intrinseche delle sostanze alimentari», essendo sufficiente, invece, il riferimento al mancato rispetto delle «prescrizioni normative» o delle «regole di comune esperienza».

In questa vicenda è stata verificata la «mancanza di un piano di controllo, di un abbattitore di temperatura e di un termometro esterno»: ciò è sufficiente per ritenere che «gli alimenti sono stati ritenuti in cattivo stato di conservazione», proprio perché «detenuti in violazione delle norme tecniche di buona conservazione». Di conseguenza, è lapalissiana, concludono i giudici, la «violazione del cosiddetto ‘ordine alimentare’, volto ad assicurare al consumatore che la sostanza alimentare giunga al consumo con le garanzie igieniche imposte per la sua natura», e tale «violazione» è sufficiente per sanzionare, in questo caso, la titolare dell’esercizio commerciale, non essendo necessario un concreto «danno alla salute».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Hamburger comprati freschi e surgelati, ma senza "abbattitore termico": sanzionata la titolare del bar - La Stampa

"Pause caffè" a ripetizione: "gps" e investigatori privati inchiodano il lavoratore

Con un ‘Gps’ installato sull’automobile aziendale sono monitorati costantemente i movimenti del lavoratore. E ‘certificate’, di conseguenza, le sue tante – troppe – ‘pause caffè’. Ciò – assieme a una corposa relazione di un’agenzia investigativa privata, operativa su incarico dell’azienda – rende legittimo il licenziamento del dipendente (Cassazione, sentenza 20440/15).

Il caso

Tempistica strettissima, quella adottata dall’azienda: il 21 settembre gli «illeciti disciplinari» del dipendente; neanche un mese dopo la «lettera di contestazione»; infine, il 30 ottobre il «licenziamento». Provvedimento, quello aziendale, reso ancora più significativo dal ruolo occupato dal lavoratore, ossia «coordinatore dell’operato di altri dipendenti addetti alla nettezza urbana nel territorio» di diversi Comuni. La contestazione nei confronti dell’uomo è di «essersi allontanato dalla sede aziendale», in orario di lavoro, per «trattenersi in bar o ‘tavole calde’» – e comunque «fuori dalla zona di attività dell’impresa» – per «conservare, ridere e scherzare con i colleghi».

Risulta decisiva la ricostruzione dei «movimenti» dell’automobile aziendale, dotata di ‘global positioning system’, e la documentazione messa sul tavolo da una agenzia investigativa privata, che, su incarico dell’azienda, ha monitorato il lavoratore. A fronte di un quadro così delineato, per i giudici di merito non vi sono dubbi: è evidente la lesione del «nesso fiduciario» coll’azienda, ed è giustificato il «licenziamento». Ciò perché sì il dipendente «era dotato di autonomia operativa per il raggiungimento degli obiettivi», ma «gli abbandoni del lavoro erano risultati senza adeguata giustificazione», e di sicuro non può «giustificare la durata delle soste nei bar l’assunzione di farmaci diuretici».

La battaglia finisce in Cassazione, dove il dipendente ribadisce le proprie contestazioni in merito sia alla forma che alla sostanza del licenziamento. Sono tre i nodi proposti dal legale dell’uomo: la tempistica; gli strumenti utilizzati per monitorare i movimenti del dipendente; il ‘peso specifico’ della violazione compiuta dal lavoratore. Ma ogni obiezione si rivela inutile, poiché anche per i giudici della Cassazione la linea seguita dall’azienda è inattaccabile. Innanzitutto, viene evidenziato che «i fatti sono stati conosciuti dalla società non prima del 21 settembre», quindi «la contestazione del successivo 18 ottobre non è tardiva».

Allo stesso tempo, viene affermato che «il periodo più breve di un mese» non ha potuto «pregiudicare le possibilità di difesa del lavoratore», così come «non è credibile che un mese di silenzio possa avere ingenerato nel lavoratore l’affidamento in una rinunzia all’esercizio del potere disciplinare». Per quanto concerne, poi, l’utilizzazione, da parte dell’azienda, di «investigatori privati» e del «sistema satellitare ‘gps’» per il monitoraggio degli spostamenti del lavoratore, i giudici ritengono tale decisione corretta, poiché finalizzata a verificare eventuali «comportamenti lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale» Tutto ciò consente ai giudici della Cassazione di confermare la legittimità del «licenziamento» del dipendente, provvedimento ritenuto proporzionale rispetto alla «gravità dei fatti» contestati all’uomo, ossia le ripetute «diserzioni dal lavoro», non giustificabili, di certo, con presunte «necessità fisiologiche».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /"Pause caffè" a ripetizione: "gps" e investigatori privati inchiodano il lavoratore - La Stampa

La Cassazione dà il via libera alla sentenza (solo) elettronica

La firma digitale sulla sentenza redatta nel (solo) formato elettronico, garantisce l'identificabilità del magistrato sottoscrittore, l'integrità del documento e la non modificabilità del provvedimento deciso.

La Terza civile della Cassazione (sentenza 22871/15 , depositata ieri) avvalla definitivamente la digitalizzazione del processo telematico - respingendo una declaratoria di «inesistenza giuridica» di una sentenza del Tribunale di Napoli - ma lo fa soprattutto scegliendo la strada maestra.

La sentenza “digitale” è da riconoscere, sostiene la Terza, non tanto in via analogico-interpretativa, ma in forza di due leggi che - pur in mancanza di recepimento/coordinamento con il codice di procedura civile - ne fondano i presupposti normativi. Si tratta del decreto legislativo 82 del 2005 («Codice dell'amministrazione digitale») e del decreto legge 193/2009 («Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario»).

fonte: www.ilsole24ore.com//La Cassazione dà il via libera alla sentenza (solo) elettronica

martedì 10 novembre 2015

Addio alla TASI per le abitazioni principali

Via la TASI per le abitazioni principali, con l’eccezione delle abitazioni “di lusso”: è questa una delle grandi novità introdotte dalla Legge di Stabilità per il 2016, che è passata alle Commissioni di palazzo Madama. Per il periodo di imposta 2015, gli immobili utilizzati come abitazioni principali hanno goduto dell’esenzione dall’IMU, essendo soggetti alla sola TASI. Diverso il discorso per quegli immobili di lusso, sottoposti a due tributi: tanto l’IMU quanto la TASI, anche se usati come abitazioni principali.

Osserviamo in tal senso come si prospetta la Stabilità 2016. Laddove il comma 639 (art. 1, Legge n. 147/2013) disponeva che la TASI fosse indistintamente “a carico sia del possessore che dell'utilizzatore dell'immobile”, il DdL al vaglio delle Commissioni del Senato intende disporre che essa sia “a carico sia del possessore che dell’utilizzatore dell’immobile, escluse le unità immobiliari destinate ad abitazione principale dal possessore nonché dall’utilizzatore e dal suo nucleo familiare, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9”.

Tali categorie comprendono, rispettivamente, le abitazioni di tipo signorile o ubicate in zone di pregio, ville con parco e giardino ubicate in zone destinate a tali costruzioni e ancora castelli o palazzi con particolari pregi storico-artistici. In tal senso, intervenendo sul comma 669 della Stabilità 2014,(art. 1, Legge n. 147/2013) il nuovo DdL va affermando: “il presupposto impositivo della TASI è il possesso o la detenzione, a qualsiasi titolo, di fabbricati e di aree edificabili, ad eccezione, in ogni caso, dei terreni agricoli e dell’abitazione principale, come definiti ai sensi dell’imposta municipale propria, escluse quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9”.

Altre novità riguardano i fabbricati rurali ad uso strumentale destinati alla conservazione di piante, di macchinari agricoli, al ricovero di animali di allevamento, all’agriturismo e all’abitazione dei dipendenti esercenti attività agricola, per i quali l’aliquota massima della TASI, attualmente, non può eccedere il limite dell’1 per mille (art. 1, comma 678 della Stabilità 2014): a tale comma viene aggiunta la riduzione dell’aliquota allo 0,1% per quei fabbricati costruiti e destinati alla vendita dall’impresa costruttrice; viene però specificato che i comuni potranno aumentare l’aliquota entro il massimo dello 0,25 per cento, oppure diminuirla fino al suo azzeramento.

Ancora, la Stabilità va ad intervenire sul comma 681 (art. 1, Legge n. 147/2013), che normalizza il caso in cui l’unità immobiliare sia occupata da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale su tale unità: “quest'ultimo e l'occupante – afferma la Stabilità 2014 – sono titolari di un'autonoma obbligazione tributaria. L'occupante versa la TASI nella misura, stabilita dal comune nel regolamento, compresa fra il 10 e il 30 per cento dell'ammontare complessivo della TASI, calcolato applicando l'aliquota di cui ai commi 676 e 677 (art. 1, Legge n. 147/2013). La restante parte e' corrisposta dal titolare del diritto reale sull'unita' immobiliare”.

Il DdL in studio alle Commissioni del Senato aggiunge però una casistica: “Nel caso in cui l’unità immobiliare sia detenuta da un soggetto che la destina ad abitazione principale […] il possessore versa la TASI nella percentuale stabilita dal comune nel regolamento relativo all’anno 2015”; come è facile prevedere, anche in questo caso sarà in vigore l’esclusione delle categorie catastali A/1, A/8 ed A/9.

Fonte: www.fiscopiu.it/Addio alla TASI per le abitazioni principali - La Stampa

Danni e lesioni alla persona in treno? Quando la responsabilità è del vettore

Durante un viaggio in treno possono capitare eventi indesiderati causanti danni e lesioni ai passeggeri: frenate brusche e aperture difettose degli sportelli sono solo alcune possibili fonti di tali inconvenienti.

La legge prevede all'art. 1678 cod. civ. che con il contratto di trasporto il vettore si obbliga a trasferire persone da un luogo a un altro e, al successivo art. 1681, che il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Continua poi qualificando come nulle tutte le clausole che limitano tale responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono il viaggiatore.

Più nello specifico il trasporto ferroviario interno di persone è regolato dal R.D.L. 11 ottobre 1934 n. 1948: se il viaggiatore subisce un danno nella persona in conseguenza di anormalità verificatesi nell'esercizio ferroviario, l'Amministrazione ne risponde, a meno che provi che l'anormalità è avvenuta per caso fortuito o forza maggiore.

Leggendo tale disposizione in concerto con l'articolo 1681 cod. civ. si deduce l'inversione dell'onere della prova allorquando viene provata l'anormalità del servizio di trasporto: dal momento della dimostrazione dell'anormalità vige una presunzione di colpa a carico del vettore.

A disciplinare la responsabilità delle imprese ferroviarie in relazione ai passeggeri è poi subentrato il Regolamento CE 2007/1371 della Commissione Europea relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario. L'art. 26 dell'Allegato 1 al Regolamento prevede che il trasportatore è responsabile del danno derivante dalla morte, dal ferimento o da qualsiasi altro pregiudizio all'integrità fisica o psichica del viaggiatore, causato da un incidente che sia in relazione con l'esercizio ferroviario e sopravvenga durante la permanenza del viaggiatore nei veicoli ferroviari, o al momento in cui egli vi entra o ne esce, qualunque sia l'infrastruttura ferroviaria utilizzata. La responsabilità viene meno se l'incidente è stato causato da una colpa del viaggiatore ovvero da circostanze estranee all'esercizio ferroviario, circostanze che il trasportatore non poteva evitare. Infine il trasportatore non incorre in responsabilità laddove l'incidente sia dovuto al comportamento di un terzo.

In linea con le disposizioni normative sopra citate, la giurisprudenza si è espressa più volte circa la responsabilità del vettore. Il Tribunale di Reggio Emilia Sez. II, nella sentenza del 5 febbraio 2014 afferma che in tema di trasporto di persone, il viaggiatore che assuma di aver subito danni a causa del trasporto, ha l'onere di dimostrare il nesso esistente tra l'evento dannoso e il trasporto medesimo; resta poi a carico del vettore l'onere di provare che l'evento dannoso costituisce fatto imprevedibile e non evitabile con la normale diligenza. Così anche Cass. civ. n. 4482/2009 e Cass. civ. n. 16893/2010, secondo la quale: "Nel contratto di trasporto di persone […], il viaggiatore che abbia subito danni a causa del trasporto (quando cioè il sinistro è posto in diretta, e non occasionale, derivazione causale rispetto all'attività di trasporto), ha l'onere di provare il nesso eziologico esistente tra l'evento dannoso ed il trasporto medesimo (dovendo considerarsi verificatisi durante il viaggio anche i sinistri occorsi durante le operazioni preparatorie o accessorie, in genere, del trasporto e durante le fermate), essendo egli tenuto ad indicare la causa specifica di verificazione dell'evento; incombe, invece, sul vettore, al fine di liberarsi dalla presunzione di responsabilità a suo carico […], l'onere di provare che l'evento dannoso costituisce fatto imprevedibile e non evitabile con la normale diligenza".

Alla chiarezza delle disposizioni inderogabili individuate dalle leggi nazionali ed europee non corrisponde un altrettanto lineare recepimento delle stesse da parte dei vettori ferroviari che spesso, nelle Condizioni Generali di Trasporto dei passeggeri, inseriscono clausole tendenti a limitare la responsabilità per i danni alla persona del passeggero. Come molto opportunamente evidenziato dalla Camera di Commercio di Milano nel Parere in materia di clausole vessatorie nei contratti di trasporto ferroviario, è quindi illegittimo il punto 10.2 delle Condizioni Generali di Trasporto dei passeggeri di Trenitalia laddove inserisce una previsione secondo la quale il vettore non risponde dell'operato dei suoi agenti qualora essi operino, su richiesta del passeggero, per prestazioni che non competono al vettore o comunque al di fuori delle mansioni loro attribuite. Suddetta previsione viola il principio del ragionevole affidamento del passeggero verso il personale di bordo, che dovrebbe semmai rifiutarsi di eseguire le prestazioni richiestegli. Similmente è illegittima la clausola inserita da TRENORD nell'art. 73 punto 4) delle Condizioni Generali di Trasporto laddove, circa la responsabilità per danno alle persone, prevede in capo al viaggiatore l'onere di far constatare immediatamente il danno al personale addetto al controllo.

Tali clausole introducono difatti casi di esclusione della responsabilità del vettore non rientranti tra quelli tipizzati elencati tassativamente dall'art. 26 dell'Allegato 1 del Regolamento europeo.

fonte: www.ilsole24ore.co//Danni e lesioni alla persona in treno? Quando la responsabilità è del vettore

Separazione e divorzio breve: le nuove norme di semplificazione

Il D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito in L. 10 novembre 2014 n. 162, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”, ha introdotto due nuove modalità per addivenire alla separazione personale, alla cessazione degli effetti civili del matrimonio o allo scioglimento del vincolo, piuttosto che alla modifica di precedenti provvedimenti e/o accordi a definizione dei procedimenti di separazione e divorzio.

La ratio dell’intervento normativo, dichiaratamente espressa nella sua intestazione, è rivolta alla deflazione del carico giudiziario. Le norme riguardanti le nuove e semplificate modalità di allentamento o scioglimento del vincolo matrimoniale si inseriscono, infatti, all’interno di un più ampio programma normativo rivolto alla suddetta finalità.

Il successivo intervento di cui alla Legge 6 maggio 2015 n. 55 è, invece, intitolato: “Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra coniugi” e consente di pervenire allo scioglimento definitivo del vincolo in tempi assai brevi, determinando, altresì, alcune ricadute nell’ambito del regime patrimoniale tra i coniugi ed, in particolare, in quello previsto ex lege della comunione legale.

Entrambe le nuove normative sono, dunque, finalizzate alla semplificazione ed alla riduzione dei tempi procedimentali della crisi matrimoniale. Dal punto di vista prettamente sistematico, emerge immediata la divergenza nei due impianti normativi:

- nel primo caso si tratta di due sole norme aventi ad oggetto immediato l’allentamento, lo scioglimento del vincolo matrimoniale o la modifica di precedenti accordi, inserite nell’ambito di un più ampio provvedimento teso a semplificare i procedimenti e deflazionare il carico giudiziale;

- nel secondo caso il Legislatore è intervenuto esclusivamente in materia con un impianto normativo composto da tre sole norme, la seconda delle quali modifica l’art 191 c.c., relativo allo scioglimento della comunione legale.

Entrambi i suddetti interventi normativi, con diverse modalità, possono avere ricadute nel campo dell’attività notarile. Sembra, pertanto, opportuno analizzali più dettagliatamente.

1. Le semplificazioni procedimentali in tema di separazione, cessazione degli effetti civili e scioglimento del vincolo matrimoniale

Alle nuove semplificazioni si può accedere solo nei seguenti casi:

- separazione consensuale;

- divorzio in forma congiunta;

- modificazione condivisa di precedenti condizioni di separazione o divorzio.

Le modalità di semplificazione introdotte dalla nuova normativa sono due, delle quali si occupano due diverse norme del provvedimento in esame:

a) l’accordo dei coniugi assunto davanti all’Ufficiale di Stato Civile, di cui all’articolo 12 L. 162/2014;

b) la negoziazione assistita, di cui all’articolo 6 L. 162/2014.

Entrambe le suddette norme recano una modifica degli art. 49, 63 e 69 del Regolamento sull’ordinamento dello Stato civile (D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396), volto a consentire la pubblicità nei suddetti registri delle due nuove tipologie procedimentali.

a. L’accordo davanti all’Ufficiale di Stato Civile ai sensi dell’art 12 L. 162/2014

L’articolo 12 L. 162/2014 introduce la possibilità per i coniugi di allentare o sciogliere definitivamente il vincolo matrimoniale mediante un semplice accordo davanti all’Ufficiale dello Stato civile. In questo caso, per espressa definizione di legge, l’assistenza legale diviene meramente facoltativa.

Ci sarebbe da chiedersi se l’accordo rappresenta un nuovo istituto (così la Circolare del Ministero dell’Interno n. 19/2014 del 28 novembre 2014), uguale e contrario al matrimonio, che differisce da quest’ultimo per l’assenza di una puntale fase preparatoria e per la mancanza di testimoni. Quasi a voler ritenere che, mentre l’apprestarsi al vincolo va meditato adeguatamente e debitamente testimoniato, di minor rilievo sono l’allentamento o lo scioglimento del medesimo.

La competenza è dell’Ufficiale dello Stato civile del luogo ove è residente almeno uno dei coniugi oppure, alternativamente, del luogo dove il matrimonio è stato trascritto (la prima stesura indicava solo il Sindaco, la Legge di conversione pare aver ampliato la competenza, riferendosi al “Sindaco, quale Ufficiale di stato civile”, rendendo competenti anche i dirigenti sottoposti al primo).

L’accordo tiene luogo dei rispettivi provvedimenti risolutivi della crisi matrimoniale, come precisato dal 4° comma della norma in commento.

Due le condizioni per poter accedere a questo procedimento iper-semplificato:

a) l’assenza di figli minori o incapaci oppure maggiorenni non economicamente autosufficienti;

b) la mancanza di “patti di trasferimento patrimoniale”;

condizioni che, peraltro, devono risultare espressamente dal testo dell’accordo, con la forma della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ex art 46 DPR 445/2000.

Nell’ampia formulazione preclusiva si ritiene debba essere inclusa “qualunque clausola avente carattere dispositivo sul piano patrimoniale”, e quindi accordi relativi a:

- assegni alimentari e/o di mantenimento (come noto l’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia non viene meno nella crisi coniugale, tramutandosi in obbligo di corresponsione di un assegno periodico da parte del coniuge più ed in favore di quello meno abbiente, purchè ne sussistano le condizioni. L’assegno dovuto in caso di separazione ha natura perequativa e di adeguamento rispetto ad una fase transitoria e deve essere versato in caso di bisogno ed in mancanza di addebito. L’assegno divorzile, in seguito alla riforma del 1987, acquista natura prettamente assistenziale, essendo rivolto a consentire al coniuge meno abbiente di non dover modificare le sue abitudini di vita in seguito allo scioglimento del vincolo);

- diritto d’abitazione, uso o trasferimento della casa coniugale;

- qualsiasi utilità patrimoniale comprensibile in un più ampio disegno volto a sistemare la situazione patrimoniale tra i due coniugi.

Si potrebbe, poi, prospettare il caso limite in cui i coniugi abbiano proceduto alla separazione con dichiarazione resa dinnanzi all’Ufficiale di Stato civile, dichiarando l’assenza di trasferimenti patrimoniali tra loro e poi volessero, invece, procedervi rispetto ad entità patrimoniali delle quali non avevano tenuto inizialmente conto. Si può discutere circa la modificabilità in questo caso dell’accordo reso, in quanto la modifica comporterebbe quanto meno la necessità di una negoziazione assistita, come in seguito esaminata. Sicuramente la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, richiesta per detto contenuto, sarebbe passibile di essere invalidata per mendacio, con tutte le conseguenze del caso (art. 76 D.P.R. 445/2000).

In sede di conversione, il Legislatore ha ritenuto di dover attribuire ai coniugi un “diritto al ripensamento”, accordando un idoneo spatium deliberandi di trenta giorni, prima dei quali l’accordo non esplica i propri effetti.

L’Ufficiale di Stato civile redige, quindi, l’atto contente le dichiarazioni dei coniugi, dando contezza in esso anche dell’invito a ricomparire nel predetto termine per confermare l’accordo.

Un problema di non semplice soluzione potrebbe verificarsi qualora i coniugi non si ripresentassero al suddetto appuntamento.

Il Ministero dell’Interno consiglia, anche in tale circostanza, l’annotazione dell’accordo all’atto di matrimonio con l’indicazione della mancata conferma.

Si ritiene, tuttavia, che siffatta forma di pubblicità non sia idonea ad evitare situazioni di incertezza circa l’esplicazione o meno degli effetti dell’accordo inizialmente presentato, ma non confermato. Il testo normativo si riferisce, infatti, ad una “conferma”, dovendosi piuttosto ritenere che, in mancanza della stessa, i coniugi abbiano inteso retrocedere rispetto ai propri iniziali intenti. La mancata comparizione andrebbe, forse, più correttamente intesa come un silenzio rifiuto, sebbene quest’ultimo, avrebbe dovuto essere più puntualmente disciplinato da parte del Legislatore.

L’articolo 12 comma 4 L. 162/2014 stabilisce, poi, che il termine per poter accedere al divorzio decorre dall’atto contenente le dichiarazioni dei coniugi concluso davanti all’Ufficiale di Stato civile. Da sottolineare l’interazione tra le due nuove normative, in quanto in base alla nuova Legge sul c.d. “divorzio breve” il periodo suddetto è stato ridotto da tre anni ad uno o, in caso di separazione consensuale, anche a sei mesi.

b. La negoziazione assistita ai sensi dell’art 6 L.162/2014

Laddove sussista anche solo una delle condizioni preclusive a procedere con l’accordo di cui all’art 12 L. 162/2014, è consentito alle parti procedere mediante negoziazione assistita, ai sensi dell’art. 6 della normativa stessa.

In questo caso è richiesto l’intervento di almeno un avvocato per parte (la legge di conversione ha modificato in questo senso la norma, che nella prima stesura prevedeva l’assistenza di almeno un avvocato, consentendo, pertanto, che un solo legale assistesse entrambi i coniugi con potenziale - quanto meno! - conflitto d’interessi.). I legali sono obbligati, prima di procedere, ad esperire un tentativo di conciliazione (anche in questo caso si tratta di interpolazione del testo originario ad opera della Legge di conversione) e, successivamente all’assunzione dell’accordo, a trasmetterlo all’Ufficiale dello Stato Civile, che provveda alla relativa pubblicità.

Nella stesura originaria, il 2° comma della norma de qua indicava come circostanza definitivamente ostativa a procedere per questa via la presenza di figli minori o maggiorenni incapaci. In sede di conversione, invece, sono state previste due diverse modalità procedimentali:

1) nel caso in cui non vi siano minori o incapaci coinvolti, l’avvocato è tenuto a trasmettere l’accordo al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente, che, in mancanza di irregolarità, rilascia nullaosta;

2) in caso di presenza di figli minori o incapaci o maggiorenni non economicamente autosufficienti, l’accordo viene, invece, trasmesso al Procuratore della Repubblica, che valuta l’interesse dell’incapace ed autorizza oppure fissa udienza di comparizione delle parti nei successivi trenta giorni.

Da notare la differenza dei provvedimenti emessi dal Procuratore: in mancanza di figli un semplice nullaosta, altrimenti un’autorizzazione, provvedimento sicuramente più pregnante, piuttosto che un controllo immediato, nel caso in cui venga fissata un’udienza di comparizione.

Anche in questo caso, l’accordo raggiunto in seguito alla convenzione “produce gli stessi effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali” che sarebbero intervenuti a definire i relativi procedimenti.

La normativa testè illustrata sembrerebbe, prima facie, non coinvolgere in alcun modo l’attività notarile. Eppure l’intervento del pubblico ufficiale è testualmente richiesto, ai sensi dell’art 5, comma 3, L. 162/2014, per autenticare le sottoscrizioni dell’accordo dei coniugi raggiunto a seguito della convenzione di negoziazione assistita, qualora con detti accordi si concludano contratti o si compiano atti soggetti a trascrizione.

Come noto, infatti, ai sensi dell’art. 2657 c.c., sono titoli per la trascrizione gli atti pubblici, le scritture private autenticate o le sentenze. Ergo, quanto meno l’autentica notarile è necessaria per la trascrizione di siffatto accordo, già in base alla disciplina codicistica.

L’intervento del Notaio è stato, dunque, esaltato dal provvedimento in commento, trattandosi dell’unico professionista/pubblico ufficiale perito nel campo delle transazioni e nella pubblicità immobiliari.

L’accordo oggetto di negoziazione assistita sarebbe sottoposto esclusivamente al vaglio dei legali delle parti, portatrici di interessi contrapposti, per quanto condivisa possa essere la decisione in ordine alle modalità di risoluzione della crisi coniugale. Di qui, la necessità di richiedere la presenza di almeno un avvocato per parte, inserita nella norma in sede di conversione.

Quanto al merito dell’accordo, il giudizio non spetterebbe al Notaio, ma bisogna tener conto dell’ampiezza di fattispecie concrete che si possono prospettare e della circostanza, ormai acclarata, che il pubblico ufficiale non è esentato dall’effettuare un controllo di legalità anche sulle scritture private che si limita ad autenticare.

Come accade, ormai sempre per prassi, sarebbe, pertanto, opportuno coinvolgere il Notaio autenticante nell’effettiva stesura dell’accordo, soprattutto ai fini della stabilità e validità del trasferimento immobiliare in esso contenuto, tanto con riguardo alle ispezioni nei Registri Immobiliari, quanto soprattutto alle menzioni obbligatorie per legge ai fini dei trasferimenti (id est clausole urbanistiche, sulla conformità catastale, sulla prestazione energetica).

Senza considerare il caso in cui, nel contenuto della negoziazione assistita, i coniugi vogliano inserire anche aspetti relativi alle rispettive successioni, che se non vagliati adeguatamente, potrebbero essere regolati in modo non conforme alle disposizioni di legge in materia di diritti dei legittimari, piuttosto che sfociare in patti successori vietati ex art. 458 c.c.

La valutazione dell’accordo da parte del Notaio, specializzato anche nel campo del diritto successorio, è auspicabile sin dalla prima stesura degli accordi anche per questo motivo.

Si pone, poi, un risvolto applicativo non trascurabile: l’applicabilità delle esenzioni fiscali previste per il divorzio dall’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n.74 ed estese alla separazione tra i coniugi dalla Sentenza di Corte Costituzionale n.154/99 del 10 maggio 1999 (Le suddette agevolazioni sono, peraltro estese agli onorari repertoriali notarili, come confermato dall'Ufficio Centrale degli Archivi Notarili con nota del 12 aprile 2006).

Ancorché la citata norma si esprima in termini piuttosto ampi (Art 19 comma 1 L 74/1987: “Tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonchè i procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”.), precedentemente dette agevolazioni erano comunque applicabili in seguito all’intervento giudiziale mediante omologa degli accordi di separazione o sentenza di separazione giudiziale oppure in seguito all’intervento notarile, mediante l’atto di trasferimento esecutivo del provvedimento giudiziale stesso. Oggi sembrerebbero estensibili alla negoziazione assistita, rispetto alla quale risulta, dunque, fondamentale l’intervento del pubblico ufficiale, volto ad avallare, come sostituto d’imposta, la sussistenza dell’esenzione.

Occorre, infine, sottolineare, che nulla esclude anche in occasione della negoziazione assistita, inserire nei relativi accordi solo risvolti patrimoniali obbligatori, cui dare esecuzione con successivo atto pubblico notarile. Si tratta, anzi, della soluzione più auspicabile, onde consentire l’esplicazione più puntuale del controllo di legalità notarile, come finora ed a tutt’ora accade rispetto agli accordi omologati o ai provvedimenti giudiziali che comportino trasferimenti patrimoniali tra coniugi.

2. La c.d. Legge sul divorzio “breve”

La Legge 6 maggio 2015 n. 55 ha introdotto il c.d. “divorzio breve”, consentendo ai coniugi di pervenire allo scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale entro un anno in caso di separazione giudiziale oppure, addirittura, entro sei mesi in caso di separazione consensuale. Ai sensi dell’articolo 1 della normativa in commento, in entrambi i casi il dies a quo coincide con la comparizione dei coniugi davanti al Presidente del Tribunale.

La normativa reca, inoltre, una modifica all’art 191 c.c., in base alla quale lo scioglimento della comunione legale si determina nel momento in cui il Presidente del Tribunale fa venir meno la comunione spirituale e la condivisione della residenza familiare, autorizzando i coniugi a vivere separati, nel caso di separazione giudiziale, oppure dalla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale.

Si tratta di una modifica di rilevante interesse notarile, basti pensare, ad esempio, alla stipula di un atto dispositivo di un bene in comunione legale in pendenza del procedimento di separazione.

La congiunzione disgiuntiva “ovvero” sottolinea la netta distinzione tra le due ipotesi sopra indicate. Nulla quaestio in caso di separazione consensuale, ove la comunione viene sciolta in seguito ad un provvedimento definitivo, quale l’omologazione degli accordi da parte dell’autorità giudiziale. Più problematico il caso della separazione giudiziale, quando l’effetto dipende da un provvedimento interinale: l’autorizzazione a vivere separati, contenuta nell’ordinanza, ai sensi dell’art 708 cpc (In tal senso Mauro Leo, “Lo scioglimento del regime di comunione legale dei beni in caso di separazione personale”, in CNN Notizie del 27 maggio 2015).

In primo luogo, pur trattandosi di ipotesi assolutamente residuale, il suddetto provvedimento potrebbe non contenere l’autorizzazione a vivere separati, dal momento che detta autorizzazione vale già ope legis, ex art 146, comma 2, c.c..

Dubbia è, poi, la natura giuridica del provvedimento de quo. Si discute, infatti, se si tratti di provvedimento di volontaria giurisdizione oppure di provvedimento cautelare ed, in relazione alla diversa natura, diversamente si configura la sua esecutività.

Nel primo caso, ai sensi dell’art 741 c.p.c., l’ordinanza sarebbe reclamabile entro 10 giorni dalla notificazione presso la Corte d’Appello ed acquisterebbe, pertanto, efficacia decorsi i termini per il reclamo. Nel secondo caso, invece, ai sensi dell’art 669-terdecies c.p.c. il reclamo non sospenderebbe l’esecuzione del provvedimento.

Il dibattito è ancora molto vivido, pertanto è consigliabile adottare la massima cautela e sposare la prima tesi, ritenendo che ai fini dell’esecutività dovrebbe attendersi, quanto meno, l’inutile decorso del termine per il reclamo. A tal fine, è altamente opportuno che il Notaio investito della stipula, verifichi l’inutile decorso dei termini per il reclamo, anche dotandosi di un certificato di mancata opposizione da parte della cancelleria del Tribunale competente.

La disposizione in commento prosegue precisando che l’ordinanza che autorizza i coniugi a vivere separati viene, poi, comunicata all’Ufficiale di Stato Civile ai fini dell’annotazione.

La norma, peraltro, impone la pubblicità del provvedimento nei Registri dello Stato civile relativamente alla sola ordinanza, in quanto l’annotazione dell’omologa è già prevista ai sensi dell’art 69 lett d) D.P.R. 396/2000.

Grazie alla pubblicità del provvedimento, forse potrebbe essere by-passato il problema della sua esecutività. Attribuendo, infatti, alla pubblicità in questione l’efficacia dichiarativa tipica che le compete nei rapporti patrimoniali tra coniugi, dal momento dell’annotazione il provvedimento e l’effetto ad esso collegato sarebbero opponibili ai terzi. Ci si potrebbe, poi, interrogare circa l’opportunità di trascrivere siffatto provvedimento, dati gli effetti che esso determina, ai fini della pubblicità-notizia ex art 2647 c.c..

fonte: www.quotidianogiuridico.it//Separazione e divorzio breve: le nuove norme di semplificazione | Quotidiano Giuridico

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