sabato 30 maggio 2015

Il fisco arriva a pesare fino all’80% sulle società

Imprese italiane asfissiate dal fisco. La tassazione sulle medie aziende «continua a essere punitiva». Il livello impositivo nel 2013 è stato del 38,1%, con punte dell’80% in alcuni casi limite. Senza l’Irap la pressione fiscale scenderebbe di oltre 11 punti percentuali al 26,4%, in linea cioè con quello delle medie imprese europee. Qualche spiraglio è stato aperto dalla legge n. 190/2014, che ha reso integralmente deducibile il costo del lavoro ai fini Irap: la misura dovrebbe portare il tax rate complessivo al 33% nel 2015, pur lasciando picchi di imposizione intorno al 60%. È quanto emerge dall’indagine annuale sulle medie imprese industriali italiane, realizzata da Mediobanca e Unioncamere, presentata ieri a Milano.  Il rapporto è basato sulla rilevazione di 3.212 aziende manifatturiere, che assicurano il 16% del valore aggiunto del settore e il 17% delle esportazione nazionali. Pur in un contesto di generale miglioramento, il capitolo fiscale continua a restare un peso significativo. Anche se la manovra sull’Irap adottata dal governo con la legge di stabilità 2015 lascia aperte buone prospettive. «Il costo del lavoro pesa nelle medie imprese per circa il 66% del valore aggiunto», evidenzia lo studio, «si stima che la riforma fiscale possa abbattere il tax rate dal 38,1% al 33%. Per il panel considerato si tratta di un calo di circa 460 milioni di euro di minori imposte su base annua, cioè 1,4 miliardi nel triennio 2015-2017». Un risparmio fiscale che, sottolinea il rapporto, potrebbe valere 11.450 posti di lavoro in più (+2%), oppure maggiori investimenti (+7%) o ancora un rafforzamento della struttura patrimoniale delle società (+9%). L’indagine rileva pure che il carico tributario complessivamente gravante sulle medie imprese (38% nel 2013) è di 12 punti percentuali superiore a quello che emerge dai bilanci dei grandi gruppi.

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Agenzia Entrate: da lunedì gli aggiornamenti catastali si faranno solo online

Dal primo giugno gli atti di aggiornamento catastale viaggeranno esclusivamente online.

Diventa obbligatorio, infatti, l'invio via web all'Agenzia delle Entrate, da parte dei professionisti, dei documenti Docfa e Pregeo per l'aggiornamento delle banche dati catastali.

Secondo quanto ha comunicato l'Agenzia delle Entrate, in caso di nuove costruzioni o se si effettuano variazioni su un immobile come fusioni, frazionamenti, ampliamenti o ristrutturazioni, è necessario presentare all'Agenzia delle Entrate i documenti Docfa e Pregeo, per consentire l'aggiornamento della banca dati catastale. Fino a oggi l'invio telematico è stato possibile in via facoltativa: da lunedì prossimo, invece, i professionisti (come geometri, ingegneri, architetti, dottori agronomi e periti) potranno inviare gli atti di aggiornamento catastale solo via internet, utilizzando il software messo a disposizione dalle Entrate.

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L'azienda può creare un falso profilo facebook per controllare il lavoratore

Non è illegittima la condotta dell'azienda che crea un falso profilo Facebook per incastrare il dipendente negligente. Provando in questo modo la propensione ad assentarsi dal posto di lavoro, tanto da arrivare al licenziamento. Sul punto, e sulla più generale questione dei controlli sul lavoratore, interviene la Corte di cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 10955 depositata ieri. La pronuncia ritiene accertati i fatti sulla base dei giudizi di merito, nei quali era emerso come il capo del personale dell'impresa avesse creato un falso profilo femminile su Facebook con richiesta di amicizia a un dipendente che già era stato sorpreso ad assentarsi dal posto di lavoro per una telefonata di oltre un quarto d'ora, lasciando incustodito un macchinario che, durante l'assenza, si era bloccato. Quello stesso giorno era stato trovato nel suo armadietto aziendale un Ipad acceso e collegato alle rete elettrica.

Nei giorni successivi, in seguito alla richiesta di amicizia arrivata dal falso profilo Facebook, il dipendente aveva chattato a lungo e in più occasioni in orari che coincidevano con quelli di lavoro. Sulla base di tutti questi elementi era scatta la procedura di licenziamenti per giusta causa, adesso avallata dalla decisione della Cassazione.

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venerdì 29 maggio 2015

Matrimonio annullato, l’assegno per il mantenimento del figlio lo stabilisce il giudice ordinario

Nel 2009, il tribunale di Teramo dichiara inammissibile la domanda di una donna per determinare l’assegno mensile dovuto dall’ex-marito a titolo di contributo per il mantenimento del figlio minore. Nel 2013, la Corte d’appello accoglie il reclamo, ponendo a carico dell’uomo l’obbligo di corrispondere un assegno mensile.

I giudici territoriali dichiarano che la disciplina applicabile è quella dell’art. 155 del codice civile (provvedimenti riguardo ai figli), richiamato dall’art. 129 c.c. (diritti dei coniugi in buona fede), in quanto il minore era nato da un matrimonio dichiarato nullo, con la conseguente applicabilità delle norme in tema di matrimonio putativo. Considerato inoltre che il codice civile (art. 38 disp. att.) attribuisce alla competenza del tribunale per i minorenni soltanto le controversie riguardanti l’affidamento dei figli naturali e l’esercizio della potestà genitoriale, riservando al tribunale ordinario quelle riguardanti il mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, la Corte d’appello ritiene che il tribunale abbia sbagliato a declinare la propria competenza in favore del tribunale per i minorenni. Infatti, le parti non hanno avanzato pretese sull’affidamento del minore o all’esercizio della potestà genitoriale, per cui non è applicabile il principio secondo cui la contestuale proposizione di tali domande e di quelle riguardanti il mantenimento dei figli comporta l’attrazione dell’intera controversia nella competenza del giudice specializzato.

L’uomo ricorre in Cassazione, contestando l’esclusione della competenza del tribunale per i minorenni: afferma di aver manifestato la volontà di intervenire nella vita del figlio, non solo in riferimento alle visite ed alla frequentazione, ma anche per le scelte e le decisioni più rilevanti per la sua crescita. La Cassazione (sentenza 9635/15) rileva che i giudici territoriali, per escludere la competenza del tribunale dei minorenni, avevano richiamato i principi in tema di provvedimenti riguardanti i figli naturali, secondo cui l’attrazione in capo al giudice specializzato della competenza a provvedere sulla misura e sul modo in cui ciascuno dei genitori deve provvedere al mantenimento del figlio si giustifica soltanto nel caso in cui la relativa domanda sia proposta contestualmente a quella riguardante l’affidamento e la regolamentazione del diritto di visita spettante al genitore non convivente: non sarebbe configurabile, fuori da questa situazione, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento rispetto ai figli di genitori coniugati e quella di favorire la concentrazione delle tutele. Perciò, secondo la Corte d’appello, in caso di proposizione di una sola di queste domande, troverebbe applicazione la disciplina generale prevista dall’art. 38 disp. att. c.c. (nel testo applicabile al caso in esame, prime delle modifiche disposte dalla l. n. 219/2012), secondo cui la competenza del tribunale per i minorenni resterebbe limitata alle domande di affidamento e di regolamentazione del diritto di visita, mentre al tribunale ordinario spetterebbe la competenza riguardo alle domande di determinazione del contributo al mantenimento e di rimborso delle spese sostenute per il sostentamento del figlio.

Tuttavia, la Cassazione sottolinea che questo ragionamento si pone in contrasto con la circostanza che, nel caso di specie, il figlio nato dalla coppia non era nato da un’unione di fatto, bensì da un matrimonio celebrato con rito concordatario e dichiarato nullo dal giudice ecclesiastico.

Anche se la dichiarazione di efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di nullità comporta l’applicabilità della disciplina del matrimonio putativo, dettata dall’art. 128 c.c., con conseguente necessità di fare riferimento all’art. 155 c.c. per regolamentare i rapporti tra genitori e figli minori, i giudici di merito non avevano considerato che lo status di figlio legittimo, spettante al figlio nato dall’unione ex art. 128, comma 2, c.c., impone l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 155 c.c. non solo nei suoi aspetti sostanziali, ma anche in quelli processuali. Dato che tale disposizione, demandando al giudice l’adozione dei provvedimenti riguardanti tanto l’affidamento dei figli e la regolamentazione del diritto di visita spettante al genitore non convivente quanto la determinazione del contributo dovuto per il mantenimento, non individua l’organo giudiziario competente, la competenza dev’essere riconosciuta al tribunale ordinario per entrambe le domande, anche nel caso in cui le stesse non siano state proposte congiuntamente, «restando configurabile la competenza del tribunale per i minorenni nei soli casi in cui siano richiesti provvedimenti ablativi della potestà genitoriale, a norma degli artt. 330 e 333 c.c.». Nel caso di specie, anche volendo ravvisare nell’insistenza del ricorrente sugli ostacoli frapposti dall’altro genitore all’esercizio del diritto di visita una manifestazione di volontà diretta ad ottenere la modifica della regolamentazione di tale diritto o dell’affidamento, la proposizione della domanda (superata anche dall’avvenuto raggiungimento della maggiore età del figlio nelle more del giudizio), «non avrebbe in alcun caso consentito di escludere la competenza del giudice adito». Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

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Regala soldi a una bambina per fare sesso: non è induzione alla prostituzione

Nuova sentenza della Corte di Cassazione che si pone in linea di continuità con quanto di recente sostenuto dalle Sezioni Unite (SS.UU., sent. 19 dicembre 2013 - 14 aprile 2014, n. 16207), con riferimento alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 600-bis c.p.: il mero compimento di atti sessuali a pagamento con il minore di età inferiore ad anni quattordici non può rientrare nella fattispecie di cui all'art. 600-bis c.p., ma è, invece, riconducibile alla ipotesi di reato di atti sessuali con minorenne di cui all'art. 609 - quater, n. 1) c.p.

Lo ha statuito la Terza Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza qui commentata, ha affermato che la condotta avente ad oggetto la consegna di una somma di denaro a una bambina di 11 anni al fine di consumare con lei rapporti sessuali (poi effettivamente non consumati per l'intervento di un addetto alla vigilanza) non è riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 600 bis c.p., ma va sussunta nell'ipotesi di reato di atti sessuali con minorenne di cui agli artt. 56 e 609 quater, n. 1), c.p., atteso che, avendo la persona offesa al momento del fatto un'età inferiore ai quattordici anni, non può trovare applicazione la fattispecie, sanzionata meno gravemente, di cui all'art. 600 bis, secondo comma, perché quest'ultima si riferisce al compimento di atti sessuali dietro corrispettivo con un minore dì età compresa tra i 14 e i 18 anni.

Appare necessario, al fine di comprendere al meglio le ragioni poste a fondamento di tale decisione, ripercorrere i punti salienti, di fatto e di diritto, che hanno interessato la vicenda in esame.

Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Bologna aveva confermato la sentenza del G.I.P. del Tribunale di Bologna, con la quale l'imputato era stato condannato, all'esito di giudizio abbreviato, per il reato di cui all'art. 600 bis, primo comma, c.p., con l'aggravante di cui all'art. 600 sexies, primo comma, per aver indotto la prostituzione una bambina di 11 anni, consegnandole una somma di 5,00 o 10,00 euro al fine di consumare con lei un rapporto sessuale nella parte posteriore di un furgone, non riuscendo nell'intento, dopo essersi abbassato i pantaloni e avere assunto una posizione idonea ad effettuare toccamenti e ad essere toccato a sua volta, per l'intervento degli addetti alla vigilanza del vicino centro commerciale. Nell'imputazione si faceva riferimento, al capo A), al reato di induzione alla prostituzione cui all'art. 600 bis, primo comma, cod. pen. e, al capo B), al reato di violenza sessuale di cui agli artt. 56, 609 bis, secondo comma, n. 1), cod. pen.

Il Gip aveva riqualificato il fatto di cui al capo B) ai sensi degli artt. 56 e 609 quater cod. pen. e aveva ritenuto assorbito tale reato in quello sub A), applicando, in relazione a quest'ultimo, l'aggravante di cui all'art. 600 sexies, primo comma, c.p.

Avverso la sentenza, la difesa del ricorrente proponeva, dunque, ricorso per Cassazione, deducendo con un primo motivo di doglianza "la manifesta illogicità della motivazione quanto al reato di prostituzione minorile", nonché "l'erronea applicazione dell'art. 600 bis, primo comma, cod. pen., anche con riferimento alla sussistenza dell'elemento soggettivo". Evidenziava, inoltre, "la nullità della sentenza per violazione dell'art. 522 cod. proc. pen. in relazione all'applicazione della circostanza aggravante di cui all'art. 600 sexies cod. pen." ed infine "l'erronea applicazione dell'art. 600 bis, primo comma, cod. pen. in relazione alla sussistenza della forma tentata del delitto".

Investita della questione, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, pur non ritenendo fondato il ricorso, ha annullato senza rinvio la impugnata sentenza con riferimento al reato di induzione alla prostituzione minorile di cui al capo A) dell'imputazione, perché il fatto non sussiste.

In particolare, nella motivazione della sentenza, la Suprema Corte, dopo aver sottolineato che "la condotta contestata all'imputato - di avere consegnato a una bambina di 11 anni la somma di 5,00 o 10,00 euro al fine di consumare con lei rapporti sessuali all'interno di un furgone, poi effettivamente non consumati per l'intervento di un addetto alla vigilanza del vicino centro commerciale - non è riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 600 bis, primo comma, cod.pen., né nella formulazione vigente all'epoca del fatto (24 febbraio 2010) né in quella attuale, introdotta dalla legge n. 172 del 2012", ha richiamato la recentissima sentenza delle Sezioni Unite n. 16207/2014 la quale, superando un precedente contrasto interpretativo, ha statuito che"la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell'art. 600-bis del codice penale". Secondo le Sezioni Unite, infatti, la nozione penalmente rilevante di "induzione alla prostituzione" abbraccia soltanto le ipotesi in cui il soggetto passivo è indotto a prostituirsi nei confronti di "terzi", e non già quando l'attività persuasiva è rivolta a compiere atti sessuali con lo stesso adulto "induttore".

Pertanto, aderendo a tale impostazione, la III Sezione della Corte di Cassazione afferma che "l'induzione, per essere tale, deve essere diretta a fare sì che il minore abbia rapporti sessuali con un soggetto diverso dall'induttore, perché altrimenti si risolve nel compimento di rapporti sessuali con minorenne in cambio di denaro o altra utilità economica".

Orbene, nel caso di specie, la Suprema Corte osserva come l'offerta di una piccola somma di denaro da parte dell'imputato alla minore di anni undici per convincerla a compiere con lui atti sessuali poi non effettivamente compiuti, deve essere ricondotta nell'ipotesi di reato di atti sessuali con minorenne di cui agli artt. 56 e 609 quater, n. 1), cod. pen., in quanto la persona offesa aveva al momento del fatto un'età inferiore ai quattordici anni, "con la conseguenza che non può trovare applicazione la fattispecie, sanzionata meno gravemente, di cui all'art. 600 bis, secondo comma, perché quest'ultima si riferisce al compimento di atti sessuali dietro corrispettivo con un minore dì età compresa tra i 14 e i 18 anni".

La sentenza in commento, quindi, lo si ribadisce, si pone in linea di continuità rispetto a quanto statuito di recente nella sopracitata sentenza dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che hanno dato una risposta ai due orientamenti contrapposti in ordine alla nozione di "induzione alla prostituzione", maturati sul terreno di fattispecie penali diverse, specificando che il c.d. "fatto del cliente", e cioè il mero compimento di atti sessuali a pagamento con il minore, può rientrare esclusivamente nella fattispecie meno grave di cui al comma secondo del delitto di cui all'art. 600-bis c.p., e non integra un'ipotesi di "induzione" descritta al comma 1 della medesima norma penale. In altri termini, le S.S.U.U. hanno evidenziato che "la condotta di induzione alla prostituzione minorile (...), per essere penalmente rilevante, deve essere sganciata dall'occasione nella quale l'agente è parte del rapporto sessuale e oggettivamente rivolta ad operare sulla prostituzione esercitata nei confronti di terzi. L'induzione del minore alla prostituzione prescinde dall'effettuazione diretta dell'atto sessuale con l'induttore e può riguardare soltanto chi determina, persuade o convince il soggetto passivo a concedere il proprio corpo per pratiche sessuali da tenere non esclusivamente con il persuasore con terzi, che possono consistere anche in una sola persona, a condizione però che questa non si identifichi nell'induttore".

Per cui, facendo propri i principi di diritto sottesi alla pronuncia delle Sezioni Unite in subiecta materia, la III Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha annullato senza rinvio la impugnata sentenza limitatamente al reato di induzione alla prostituzione minorile ex art. 600 bis, primo comma, c.p. di cui al capo A) dell'editto imputativo, perché il fatto non sussiste, con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Bologna per la determinazione della pena quanto al residuo capo B), rigettando nel resto il ricorso.

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giovedì 28 maggio 2015

L’INPS può provare l’omesso versamento dei contributi sulla base dei modelli presentati dal datore di lavoro

La Corte d’appello de L’Aquila conferma la sentenza del giudice che condannava l’imputato per il reato di omesso versamento di contributi previdenziali sulle retribuzioni dei propri lavoratori dipendenti. L'imputato ricorre in Cassazione lamentando la mancata produzione in giudizio dei modelli DM10 da parte dell’INPS che aveva invece fornito prospetti riepilogativi non determinanti per l’attestazione dell’omesso versamento, neppure a titolo indiziario.

Il ricorrente solleva dubbi su natura ed efficacia probatoria del modello DM 10 che sarebbe un «documento elettronico con cui il datore di lavoro invia un prospetto, in cui riepiloga l’importo delle retribuzioni mensili dei dipendenti» e non potrebbe dunque, a detta del ricorrente, rappresentare una prova diretta circa l’effettiva corresponsione dei contributi previdenziali ai dipendenti, dovendo tale documento considerarsi come una mera ricognizione di debito e non come un’attestazione di avvenuto pagamento. Allo stesso modo, la busta paga, continua il ricorrente, non costituirebbe la prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione, posto che la sottoscrizione da parte del datore di lavoro costituisce solo una presunzione di pagamento. Le prospettazioni difensive del ricorrente sono manifestamene infondate.

Se è vero che la giurisprudenza individua l’elemento costitutivo del reato ascritto all’imputato nell’assenza materiale dell’esborso delle somme dovute al dipendente a titolo di contributi, è stato comunque precisato che la prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni può essere tratta dei modelli che attestano l’ammontare delle retribuzioni dovute ai dipendenti e i conseguenti obblighi contributivi nei confronti dell’INPS.

I c.d. modelli DM 10 hanno dunque pacifica natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro e la loro presentazione equivale all’attestazione di aver corrisposto le retribuzioni ivi risultanti. Nel caso, i prospetti riepilogativi prodotti in giudizio dall’istituto previdenziale riportano i saldi risultanti dai mod. DM 10 precedentemente inviati dal datore di lavoro, trattandosi difatti di comunicazioni che normalmente l’INPS invia alle aziende dopo aver ricevuto, per via telematica dai datori di lavoro tramite PIN personale, i mod. DM 10/2.

I giudici di merito hanno ritenuto giustamente che la produzione in giudizio dell’attestazione telematica da parte dell’istituto dell’avvenuta ricezione dei modelli summenzionati attesta, salvo prova contraria, l’effettiva presentazione degli stessi traendone dunque la prova della corresponsione delle retribuzioni. Coerentemente con quanto affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, la Corte territoriale ha escluso che ci sia un’inversione dell’onere della prova a carico dell’imputato, evidenziando che la prova del versamento delle retribuzioni può essere dedotta dalla presentazione dei modelli, ferma restando la possibilità per l’imputato di fornire prova contraria. Per questi motivi, la Cassazione (sentenza 21619/15) dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Litigio verbale prima e aggressione fisica poi, dinanzi ai clienti: licenziato

Scontro tra gli scaffali del supermercato: protagonisti due dipendenti. Tutto sotto gli occhi sorpresi e incuriositi dei clienti. In particolare, a uno dei due contendenti viene addebitato, dall’azienda, di avere dato prima il ‘la’ al diverbio e poi di essere passato direttamente alle mani, aggredendo il collega. Ciò è sufficiente, alla luce della ricostruzione dell’increscioso episodio, a legittimare il licenziamento deciso dalla società proprietaria della struttura commerciale (Cassazione, sentenza 10842/15).

Passaggio decisivo, nella battaglia giudiziaria, è quello in Appello, dove i giudici, in controtendenza rispetto a quanto stabilito in Tribunale, dichiarano la «legittimità del licenziamento» deciso da una società – proprietaria di una nota catena di supermercati – nei confronti di un dipendente, resosi responsabile, nel contesto di una delle strutture disseminate in Italia, di un «diverbio oltraggioso con un collega», con successivo «ricorso alle vie di fatto». A rendere più grave l’episodio, poi, anche la constatazione che esso si è concretizzato «in presenza della clientela».

Decisiva, per i giudici, l’«attendibilità delle testimonianze», che non possono essere messe in discussione, nonostante i «testi» siano «dipendenti della società datrice di lavoro». Rilevante, allo stesso tempo, anche il ‘peso specifico’ attribuibile alla condotta del dipendente, ‘protagonista’, come detto, di un «diverbio litigioso, seguito da vie di fatto, nocivo al normale esercizio dell’attività aziendale». Dinanzi ai giudici della Cassazione, però, il lavoratore – oramai ex dipendente – batte nuovamente sulla tesi della ‘precaria’ «valutazione delle prove» in Appello, con particolare riferimento alla «attendibilità» dei testi. Perché, viene domandato, è credibile un «dipendente della società», e non un «cliente dell’esercizio commerciale», il quale propone una versione diversa del litigio?

Allo stesso tempo, peraltro, l’uomo contesta la «sanzione disciplinare espulsiva» ritenendola non proporzionale rispetto alla condotta a lui addebitata. Ogni obiezione, però, si rivela inutile. Perché, per i giudici del ‘Palazzaccio’, è sostanzialmente corretta la visione adottata in Appello, sia sul valore delle «deposizioni testimoniali» che sul fronte della «proporzionalità della sanzione» adottata dall’azienda. Su quest’ultimo punto, in particolare, alla luce del «contratto collettivo nazionale di settore», appare evidente la gravità delle azioni compiute dal dipendente, «contrarie ai doveri civici». Ciò comporta, alla luce del «diverbio litigioso» ‘coronato’ dallo scontro fisico e sicuramente «nocivo al normale esercizio dell’attività», la conferma della «legittimità del licenziamento», con buona pace del lavoratore.

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mercoledì 27 maggio 2015

Manovre insidiose in macchina per “influenzare” l’altra auto, è violenza privata

E' reato di violenza privata la condotta del conducente di un veicolo che compie deliberatamente manovre insidiose per interferire con la condotta di guida di un altro utente della strada, il quale si viene a trovare nell’impossibilità di eseguire una qualsiasi manovra di emergenza, di arresto o deviazione del veicolo, per evitare la collisione. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 19551/15.

Il caso

La Corte d’appello di Firenze condannava un’imputata per violenza privata e danneggiamento. Secondo le accuse, guidando in maniera pericolosa ed aggressiva, avrebbe costretto gli occupanti di un’altra macchina (tra cui una donna che aveva instaurato una relazione sentimentale con l’ex-convivente dell’imputata) ad effettuare a loro volta manovre pericolose e ad arrestare poi la marcia della propria macchina sul ciglio della strada. Inoltre, aveva strappato di mano un cellulare alla stessa donna, rompendo il display.

L’imputata ricorreva in Cassazione, deducendo che il comportamento tenuto, guidando un veicolo, non integrerebbe gli estremi della violenza privata. La Corte di Cassazione ricorda però che, in tema di delitto di violenza privata, integra l’elemento della violenza la condotta che impedisca il libero movimento del soggetto passivo, ponendolo nell’alternativa di non muoversi oppure di muoversi con il pericolo di menomare l’integrità degli altri, compreso l’agente. Allo stesso modo, integra il reato di violenza privata la condotta del conducente di un veicolo che compia deliberatamente manovre insidiose al fine di interferire con la condotta di guida di un altro utente della strada, realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione della persona offesa, la quale si viene a trovare nell’impossibilità di eseguire una qualsiasi manovra di emergenza, di arresto o deviazione del veicolo, per evitare la collisione.

Infine, i giudici di legittimità ricordano che integra l’ipotesi di reato anche la condotta di un conducente di un veicolo che, eseguendo una brusca sterzata oppure affiancando o sorpassando un’altra auto, costringa il conducente di quest’ultima a cambiare direzione di marcia per evitare la collisione. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

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Mancata attivazione del fax a studio legale: sì a tutela ex 700 c.p.c.

Nel caso all’esame del giudice de quo, uno studio legale proponeva ricorso ex art. 700 c.p.c. contro una compagnia telefonica per la mancata attivazione della linea fax.

In particolare, il ricorrente sosteneva di aver sottoscritto un contratto per l’erogazione del servizio di telefonia fissa anche sulla linea fax e che, dalla data di installazione, la predetta linea fax non risultava funzionante, nonostante i solleciti inoltrati.

Per l’effetto, parte ricorrente chiedeva l’immediata attivazione della linea telefonica con condanna, altresì, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., della resistente al pagamento di somme di denaro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento.

La compagnia telefonica eccepiva, dal canto suo, in via preliminare, l’incompetenza territoriale in virtù di clausola derogativa espressamente sottoscritta e l’improponibilità della domanda per mancato esperimento del procedimento di conciliazione; nel merito, l’insussistenza dei requisiti per la tutela cautelare.

Il Tribunale ha, innanzitutto, dichiarato infondata l’eccezione di incompetenza in quanto la clausola derogativa risulta sottoscritta insieme ad una serie di clausole ulteriori non tutte di natura vessatoria e, secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la sottoscrizione cumulativa ed indiscriminata di clausole di vario contenuto (vessatorio e non) non è sufficiente a ritenere integrato il requisito della specifica sottoscrizione.

Inoltre, sempre in via preliminare, ha dichiarato che il rimedio ex art. 700 c.p.c. è certamente esperibile, malgrado la previsione del tentativo obbligatorio di conciliazione innanzi al CO.RE.COM. Infatti, in primo luogo, vi è incompatibilità di questo tipo di procedura con il requisito dell’urgenza che caratterizza il ricorso in via cautelare; inoltre, “il fatto che la procedura conciliativa debba concludersi nel termine di 30 giorni dalla presentazione della domanda non costituisce un’adeguata garanzia di speditezza perché comunque comporta che debbano aggiungersi ulteriori 30 giorni al lasso di tempo necessario per iniziare e concludere una procedura cautelare, il che implica la concreta possibilità che, qualora la procedura conciliativa si concluda con esito negativo, le esigenze cautelari siano concretamente aggravate e/o vanificate per il decorso del tempo”.

Nel merito, in via cautelare, il ricorso è da ritenersi per il giudice fondato. Relativamente al fumus boni iuris, infatti, la compagnia telefonica asserisce che la mancata attivazione è riconducibile a circostanze ad essa non imputabili, consistenti, in particolare, nel mancato consenso da parte di altro operatore telefonico alla trasmigrazione della linea.

Ma, osserva il giudice, in un’ottica di correttezza e buona fede contrattuale, la compagnia telefonica dovrebbe, prima della stipula del contratto, effettuare tutte le indagini necessarie ad assicurare il funzionamento della linea una volta stipulato il contratto.

Sussiste nel caso di specie, altresì, il requisito del periculum in mora perché la mancata attivazione della linea fax nei tempi concordati determina un pregiudizio irreparabile, incidendo sulla proprietà e, più specificamente, sull’esercizio dell’attività professionale sotto forma di impresa, entrambi diritti costituzionalmente riconosciuti (artt. 41 e 42 Cost.), correlati altresi’ all’esercizio del diritto alla difesa (art. 24 Cost.).

Il Tribunale ha infine accolto la domanda di parte ricorrente ex art. 614 bis c.p.c. in quanto tale strumento è utilizzabile anche in sede cautelare secondo la giurisprudenza maggioritaria: “sia il tenore letterale ampio dell’articolo in esame, sia l’identità di ratio - che consiste nell’assicurare l’effettività delle pronunce di condanna mediante uno strumento di coazione indiretta -, riferibile a qualunque tipo di pronuncia di condanna (purché relativa ad obbligazioni infungibili), fanno deporre in questo senso”.

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martedì 26 maggio 2015

Parte il divorzio breve: l’ingorgo nei tribunali rischia di allungare i tempi

Legge retroattiva: riguarda anche chi ha già iniziato il percorso

Attesissima, scatta oggi l’ora X per il Divorzio Breve. Entra in vigore la riforma e non sono più necessari 3 anni di separazione per arrivare al divorzio. Da oggi sono sufficienti 6 mesi se la decisione è consensuale oppure 12 se giudiziale. Ed è una grande novità anche che la comunione dei beni si sciolga quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separati o al momento di sottoscrivere la separazione consensuale; prima della riforma occorreva il passaggio in giudicato della sentenza di separazione. A questo punto, però, si teme l’onda anomala di decine di migliaia di coppie che hanno già maturato un anno o due di separazione e vorranno, legittimamente, approfittare della velocizzazione. Il rischio è che si crei un ingorgo nei tribunali. La legge, infatti, è retroattiva. Non distingue tra chi inizia oggi il percorso e chi l’ha già iniziato. Dice semplicemente che la tappa di arrivo è stato spostata in avanti per tutti.

L’allarme

Gli addetti ai lavori sono in allarme: i tribunali civili rischiano di andare in affanno. «Secondo le nostre stime - dice l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente dell’associazione matrimonialisti italiani - quest’anno ci sarà il doppio di richieste di divorzio: normalmente sono cinquantamila procedimenti all’anno, ma dato che si sono create d’improvviso le condizioni per tanti che erano a metà percorso, ne arriveranno altrettanti tra giugno e luglio».

 Se alcuni giudici sono molto preoccupati dal fenomeno dell’onda anomala (Gloria Servetti, presidente della sezione che si occupa di diritto di famiglia a Milano, ha detto al Sole 24 Ore: «Questa riforma ci affosserà»), l’avvocato è più ottimista: «Ci sarà un contraccolpo nei primi mesi, ma i tribunali si sono attrezzati e non più tardi di ottobre-novembre avranno smaltito questa mole un po’ eccezionale di lavoro». Inutile illudere, invece, chi ha contenziosi difficili. I nodi restano.

Facile oltre che breve  

In parallelo con la riforma che ha accelerato i tempi, sforbiciando sui tempi della separazione, è entrata in vigore un’altra riforma importante, detta del Divorzio Facile. Si può cioè divorziare senza passare da un tribunale, ma con la cosiddetta negoziazione assistita di un avvocato (o due, se ciascuno dei coniugi in crisi ha il proprio legale di fiducia) o addirittura senza avvocati e davanti al sindaco (ma solo qualora non ci siano figli né trasferimenti immobiliari). Quest’ultima procedura ha il grande vantaggio di essere stra-economica: con 16 euro di bolli è tutto fatto. La parcella degli avvocati è ovviamente più salata.

I primi risultati di questo Divorzio Facile - che oggi saranno illustrati al ministero della Giustizia - sembrano incoraggianti, ma non rivoluzionari. Nei primi cinque mesi del 2015, sono state 250 le coppie che hanno scelto la via alternativa a Milano. A Genova erano 9 coppie a febbraio, 28 a marzo. A Roma, 42 a febbraio e 132 a marzo. «C’è ancora molta ritrosia ad affidarsi solo agli avvocati - riconosce Gassani -. Se si creerà un ingorgo nei tribunali, però, molti sceglieranno le formule alternative». Ed è quanto spera il governo: che sempre più coppie rinuncino al tribunale.

La polemica

C’è chi pensa che la legge sia stata un’occasione perduta. Per l’avvocato matrimonialista Francesca Zanasi il limite è la persistenza stessa della separazione obbligatoria per arrivare al divorzio. «Dovrebbe essere facoltativa o abolita, per approdare al divorzio diretto, come peraltro avviene già in molti Paesi europei».

fonte: www.lastampa.it//Parte il divorzio breve: l’ingorgo nei tribunali rischia di allungare i tempi - La Stampa

Apatia e depressione non sono sufficienti ad ottenere la pensione di reversibilità

La nozione di inabilità, rilevante per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità, va intesa come assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa a causa di infermità o difetto fisico o mentale, il cui accertamento rende superflua la verifica di una residua possibilità d’impiego compatibile con la condizione dell’interessato. Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza 9500/15.

Il caso

La Corte d’appello di Firenze accoglie il ricorso dell’INPS contro la sentenza del Tribunale di Lucca che aveva a sua volta accolto la domanda di una donna diretta all’accertamento del diritto a percepire la pensione di reversibilità della propria madre, in quanto figlia maggiorenne ed inabile al lavoro. La ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale abbia utilizzato un concetto di «totale inabilità» diverso da quello normativamente richiesto ai fini del diritto alla pensione di reversibilità, rilevando non la totale inabilità, ma la concreta impossibilità di dedicarsi ad un’attività lavorativa che consenta di soddisfare le esigenze primarie di vita.

La Cassazione prende le mosse dalla legge 222/1984, la quale ha introdotto una nozione d'inabilità ai fini del riconoscimento del diritto alla pensione di inabilità, di reversibilità e ad altre prestazioni assistenziali, oltre che ai fini del diritto agli assegni familiari: «si considerano inabili le persone che, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovino nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa», requisito più stringente rispetto a quanto previsto dalla disciplina previgente che considerava inabili le persone che si trovassero nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere «un proficuo lavoro», condizione rilevante in termini concreti, anche in considerazione alle condizioni del mercato del lavoro, e diretta ad accertare il possesso di una generica capacità lavorativa.

Ciò che assume rilevanza è l’assoluta e permanente incapacità di svolgere una qualsiasi attività lavorativa, nel senso che «questa deve essere determinata esclusivamente dalla infermità ovvero dal difetto fisico o mentale», senza che debba verificarsi un’eventuale possibilità di impiego delle residue energie lavorative in un’attività compatibile con tali condizioni soggettive. Nel caso, la negazione del diritto alla reversibilità della pensione della madre della ricorrente si fonda sul mancato accertamento di una situazione di assoluta incapacità lavorativa, come risulta dalla CTU disposta dal giudice d’appello anche in riferimento alla condizione psichiatrica della ricorrente, la quale risultava in una condizione di apatia e depressione che, tuttavia, non era mai sfociata in un ricovero psichiatrico né in un trattamento di psicoterapia. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Apatia e depressione non sono sufficienti ad ottenere la pensione di reversibilità - La Stampa

lunedì 25 maggio 2015

Diminutivo fatale in ambito militare: è offensivo dare del "tenentino"

Diminutivo all’apparenza simpatico: ‘tenentino’. Ma ogni parola può rivelarsi a doppio senso, soprattutto alla luce del contesto... Difatti, proprio l’utilizzo di quel termine costa carissimo a un tenente colonnello della Guardia di Finanza, ritenuto colpevole di avere offeso un colonnello, suo commilitone, apostrofandolo come ‘tenentino’, con «tono di disprezzo e di dileggio» (Cassazione, sentenza 21509/15). Ciò conduce a condividere non solo la «condanna» nei confronti del tenente colonnello, ma anche la «pena», fissata in «quattro mesi di reclusione militare».

Inequivocabile, per i giudici, la condotta tenuta dal militare della Guardia di Finanza, il quale ha appellato, «con tono di disprezzo e dileggio», come «‘tenentino’» il commilitone – un «tenente», per l’appunto – che aveva ricevuto il compito di notificargli «l’atto amministrativo di revoca della concessione dell’alloggio di servizio che aveva in uso». Evidenti, sempre secondo i giudici, la ‘lesione’ per il «prestigio» e la «dignità» del tenente, destinatario del diminutivo. Incontestabile, quindi, il reato di «ingiuria».

Secondo l’uomo sotto accusa, però, è stato trascurato un particolare non secondario, cioè la condotta tenuta dal tenente. Quest’ultimo, in particolare, si evidenzia nella linea difensiva proposta in Cassazione, non ha «proceduto» regolarmente «alla notifica nei confronti del suo ‘superiore’», bensì ha assunto un atteggiamento «aggressivo e irriguardoso». Più precisamente, il tenente, «a fronte del cortese ripetuto diniego» opposto dal tenente colonnello a «ricevere la notifica del provvedimento amministrativo», non si è limitato «a procedere nei termini previsti dalle norme di procedura civile, redigendo la relazione di notifica attestante l’avvenuto diniego a seguito della quale la notifica del provvedimento raggiunge in ogni caso la finalità di legge» ma ha «impedito addirittura al colonnello di uscire dalla caserma e lo ha inseguito all’interno del corpo di guardia, reiterando la notifica del verbale del provvedimento in maniera ossessiva, ed assumendo, nei confronti del destinatario, una condotta incomprensibilmente aggressiva e del tutto ingiustificata».

Alla luce di questo contesto, il colonnello sostiene che l’utilizzo del termine ‘tenentino’ non è valutabile come «ingiuria», perché esso era finalizzato a riaffermare «la propria dignità ed autorità» a fronte della «condotta illegittima» del tenente che «notificava l’atto». Tale visione, però, non riesce a convincere i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, invece, ritengono corretta l’ottica adottata in Appello, soprattutto tenendo conto della «ricostruzione» dell’episodio.

In particolare, il colonnello ha «tentato ripetutamente di sottrarsi alla notifica dell’atto amministrativo, a fini del tutto personali, creando imbarazzo ed oggettive difficoltà nell’attività dell’amministrazione militare», ad esempio «rifiutando di ricevere la notifica fatta al domicilio». Poi, una volta raggiunto mentre era «a bordo della sua autovettura», ha apostrofato in malo modo il tenente che «lo aveva invitato a fermarsi per consentirgli di precedere alla notifica», urlandogli: “Un tenentino vuol dire al colonnello cosa deve fare”. Non contestabile, quindi, la «valenza dispregiativa della frase pronunciata» nei confronti del tenente, e tale da lederne «il decoro e l’onore». Confermata, di conseguenza, la «condanna» per il reato di «ingiuria».

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La sospensione della patente non contrasta con il diritto al lavoro

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dispone la sospensione della patente di guida per 7 mesi a carico di un imputato per il reato guida in stato d’ebbrezza (articolo 186, comma 2, lett. b del Codice della strada). L'imputato ricorre in Cassazione, prospettando l’incostituzionalità delle norme del codice della strada in tema di sospensione della patente e possibilità di concessione di limitati permessi orari di guida.

La Cassazione (sentenza 19167/15) ribadisce che, in riferimento all’applicazione della sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento al criterio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per la mancata previsione da parte della normativa applicabile della possibilità per il giudice di regolamentare l’applicazione della sanzione stessa in modo tale da non ostacolare il lavoro del condannato, qualora la patente sia un requisito indispensabile allo svolgimento della sua attività lavorativa.

Nessun pregio merita la prospettata questione di legittimità costituzionale anche con riguardo al diritto fondamentale al lavoro, «rientrando nell’insindacabile discrezionalità del legislatore, ancora una volta, la tutela della pubblica incolumità anche con il sacrificio delle possibilità lavorative del condannato sul rilievo che le peculiarità insite in una attività lavorativa che comporti frequenti spostamenti, in tanto possono trovare equilibrato soddisfacimento, in quanto le relative modalità attuative non finiscano per svuotare integralmente di contenuto la sanzione applicata». Per questi motivi la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La sospensione della patente non contrasta con il diritto al lavoro - La Stampa

Danni non patrimoniali spettano anche alla fidanzata non convivente

Tribunale, Firenze, sez. II civile, sentenza 26/03/2015 n° 1011

Danni non patrimoniali spettano anche alla fidanzata non conviventeLa sentenza in commento affronta il tema della risarcibilità di danni non patrimoniali in favore dei “prossimi congiunti” di una persona deceduta in conseguenza dell'altrui illecito, riconoscendo la configurabilità di un danno, e del conseguente diritto al risarcimento, anche in capo alla fidanzata non convivente del de cuius.

Richiamando preliminarmente le note “Sentenze di San Martino” (Cass. Civ., Sez. Un., 11.11.2008), il Giudice evidenzia come il danno non patrimoniale costituisca una categoria risarcitoria ampia, comprendente ogni danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica. Nell'ambito di tale categoria di danni - risarcibili tanto nei casi espressamente previsti dalle leggi ex art. 2059 c.c., quanto in caso di lesione dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, fra cui il diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) - si possono individuare diverse voci di danno, quali il danno biologico, il c.d. danno morale e il danno c.d. esistenziale, che per la giurisprudenza di legittimità, salvo alcune pronunce in senso difforme (cfr. Cass. Civ., III Sez. , Sent. 3.10.2013, n. 22585), non costituiscono autonome categorie di danno ma descrivono diversi tipi di pregiudizi, e quindi vanno valutati e quantificati nell'ambito di un'unica categoria di danno, pena l'inammissibile duplicazione di risarcimenti.

Conseguentemente il danno c.d. morale, ossia l'intima sofferenza subìta dagli stretti congiunti della persona deceduta in conseguenza dell'altrui illecito, e il c.d. danno da perdita parentale, derivante dall' intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, dalla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell'ambito di quella peculiare formazione sociale che è la famiglia (art. 2, 29 e 30 Cost.) non possono essere attribuiti congiuntamente, ed invero l'unitaria quantificazione del danno andrà valutata in relazione, nel caso di specie, alla giovane età della persona deceduta, alla gravità del fatto illecito, all'intensità del vincolo parentale, alla relazione di convivenza e a tutti quegli elementi che, nella fattispecie concreta, rendano adeguato e non simbolico il risarcimento del danno.

Il danno c.d. biologico, inteso come lesione all'integrità psico-fisica eziologicamente riconducibile, nel caso di specie, all'evento morte, troverà invece una distinta valutazione e quantificazione sulla base delle risultanze delle consulenze tecniche espletate.

E pertanto il Giudice, nell'esaminata sentenza, riconosce ai parenti del de cuius importi diversi in relazione al danno c.d. parentale e al danno c.d. biologico (oltre che per danno emergente per spese documentate), riconoscendo un danno non patrimoniale anche in favore della fidanzata non convivente del de cuius, facendo propria una recente pronuncia della Cassazione penale, (Cass. Pen., IV Sez., Sent. 10.11.2014, n. 46531), ove i Giudici di legittimità hanno stabilito che il riferimento ai “prossimi congiunti” della vittima primaria, quali soggetti danneggiati iure proprio, deve essere inteso nel senso che, in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra questi ultimi e la vittima, è proprio la lesione che colpisce tale peculiare situazione affettiva a connotare l'ingiustizia del danno e a rendere risarcibili le conseguente pregiudizievoli che ne siano derivate (se e in quanto queste siano allegate e dimostrate quale danno-conseguenza), a prescindere dall'esistenza di rapporti di parentela, affinitià o congiudio giuridicamente rilevanti come tali. E per “convivenza” non deve intendersi la sola situazione di coabitazione tra prossimo congiunto e vittima primaria di un illecito, quanto piuttosto lo stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti. Nel caso di specie la fidanzata della vittima aveva dato ampio riscontro probatorio di un rapporto sentimentale risalente nel tempo e che, in mancanza del tragico evento, avrebbe trovato nel matrimonio la piena realizzazione; difatti i due fidanzati avevano acquistato una casa sin dal 2/5/2001 in ragione del 50% cadauno, vi avevano trasferito la residenza sin dal 26/5/2001, e avevano formalizzato le reciproche promesse con la richiesta di pubblicazione del matrimonio, che si sarebbe celebrato il 8/02/2003 se non si fosse invece verificato il tragico evento del 26/01/2003. Conseguentemente il Giudice riconosce alla fidanzata del de cuius il danno da c.d. perdita parentale, applicando il parametro relativo al coniuge non convivente di cui alle tabelle del Tribunale di Roma, riconoscendo altresì il danno biologico come da risultanze peritali e il danno emergente per spese documentate.

Va infine evidenziato che, nelle motivazioni di cui all'esaminata sentenza, il Giudice, richiamando consolidata giurisprudenza (ex multis, Cassaz. Civ. III Sez., n. 458/2009; Cass. Civ,, III Sez., n. 28423/2009) esclude, per tutti i congiunti, la risarcibilità del danno non patrimoniale iure hereditario, stante l'immediatezza del decesso conseguente all'illecito e quindi la non configurabilità in capo al de cuius né di un danno biologico trasferibile agli eredi (costituendo la morte non la massima lesione possibile della salute ma la perdita del bene giuridico della vita) né un danno morale, non essendovi stato il tempo, per la vittima, di maturare la percezione del proprio stato.

fonte: www.altalex.com//Danni non patrimoniali spettano anche alla fidanzata non convivente | Altalex

domenica 24 maggio 2015

Cassazione, rischio carcere per gli insulti su Facebook

La Suprema Corte ha stabilito che per le offese sui social la competenza non è del giudice di pace ma del tribunale, dove il reato è punito con la reclusione fino a tre anni.
La Cassazione ha deciso: rischia il carcere chi denigra e offende su Facebook. All’origine della sentenza, la burrascosa separazione di una coppia, in particolare gli insulti postati sul social network dall’ex marito nei confronti dell’ex moglie. Ne è nato un processo per diffamazione con rimpallo tra giudice di pace e tribunale: una questione non di poco conto per gli attaccabrighe del web, perché mentre il primo applica soltanto sanzioni pecuniarie, l’altro può anche infliggere il carcere. Per la precisione, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni.
Il nodo della pubblicità
Il processo all’inizio era stato incardinato davanti al giudice di pace di Roma, che ha dichiarato la sua incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità e quindi di competenza del tribunale. Ma qui il collegio ha accolto le argomentazioni dell’avvocato dell’ex marito, Gianluca Arrighi, stabilendo che Fb non può essere paragonato a un blog o a un quotidiano online, visionabile da chiunque sulla rete, e che pertanto la competenza è del giudice di pace. Gli atti, di conseguenza, sono stati trasmessi alla Corte Suprema per la risoluzione del conflitto.
Il rischio carcere
Gli ermellini, dopo una lunga camera di consiglio, hanno invece deciso, in via definitiva, che la diffamazione su Facebook deve essere considerata aggravata dal mezzo della pubblicità e che pertanto la pena da applicare può essere il carcere. «È una sentenza che non condivido – commenta Arrighi – ma che ovviamente rispetto. Rimane il dubbio che nei processi per reati commessi su internet sfuggano ancora, talvolta, le reali dinamiche della rete. Soltanto quando leggeremo le motivazioni sapremo qual è stato il percorso logico giuridico seguito dalla Cassazione».
fonte: www.corriere.it//Cassazione, rischio carcere per gli insulti su Facebook - Corriere.it

sabato 23 maggio 2015

Risponde di rapina il soggetto che s’impossessa del telefono della fidanzata allo scopo di leggere gli sms

Cass. pen., Sez. II, 10 marzo 2015 (19 marzo 2015), n. 11467, Est. Gallo, Imp. Carbone

Con la sentenza in epigrafe la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di rapina nella condotta dell'imputato che, con violenza, sottraeva il telefono cellulare alla ex fidanzata, allo scopo di far leggere al padre di lei gli SMS ivi memorizzati, dai quali si evinceva che la donna lo tradiva con un altro uomo. La S.C. ha così disatteso la doglianza difensiva che faceva leva sull'assenza del dolo specifico (la finalità di perseguire un "ingiusto profitto") richiesto dall'art. 628 c.p.

Sul punto, la Cassazione ha infatti ravvisato, in applicazione di principi giurisprudenziali ormai consolidati,  tanto la sussistenza del profitto, qualificandolo come «qualsiasi utilità, anche solo morale, qualsiasi soddisfazione o godimento che l'agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene»; quanto il carattere ingiusto del profitto medesimo, sottolineando come l'imputato, con la condotta in esame, avesse violato il diritto alla riservatezza della persona offesa, nonché inciso negativamente sulla sua sfera della libertà, comprimendone il diritto all'autodeterminazione. La Suprema Corte ha rilevato infatti come «l'instaurazione di una relazione sentimentale tra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all'autodeterminazione fondato sull'art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione». Gli Ermellini hanno poi precisato che «la libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine».

La pronuncia della Suprema Corte suscita alcune perplessità in ordine alla nozione di profitto adottata, invero talmente estensiva da rischiare di perdere qualsivoglia portata autenticamente selettiva delle condotte meritevoli del nomen di rapina e dunque della sanzione prevista dall'art. 628 c.p.

In termini generali, la nozione di profitto - concetto richiamato dall'art. 628 c.p. come oggetto del dolo specifico e presente altresì in diversi altri delitti contro il patrimonio - ha ricevuto due diverse interpretazioni, una estensiva ed una restrittiva.

La tesi estensiva prescinde dall'elemento patrimoniale e ricomprende nel concetto di profitto ogni utilità e vantaggio. I sostenitori di tale interpretazione sottolineano come dall'esame del dato letterale non emerga alcun riferimento al carattere necessariamente patrimoniale del profitto e di conseguenza come ogni limitazione, volta ad escludere utilità di tipo morale o psichico, risulterebbe arbitraria.

La tesi restrittiva, invece, assegna al profitto una natura intrinsecamente patrimoniale, o quanto meno economicamente valutabile, anche alla luce della collocazione del delitto di rapina all'interno del titolo dedicato ai reati contro il patrimonio.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità è unanime nell'abbracciare la tesi estensiva, qualificando come profitto idoneo ad integrare il delitto di rapina ogni utilità, vantaggio o godimento che il soggetto agente possa trarre, pur in via indiretta, dalla condotta penalmente rilevante; un profitto, quindi, che non debba avere necessariamente natura economico-patrimoniale, bensì anche morale o psichica.

In via esemplificativa, la giurisprudenza ha rinvenuto gli estremi del delitto di rapina in un'ipotesi in cui l'agente ha agito al solo scopo di umiliare la persona offesa, gettando la refurtiva in mare immediatamente dopo essersene impossessato. Ancora, il delitto di cui trattasi è stato ritenuto sussistente nella condotta di alcuni terroristi, che si sono impossessati violentemente di agende, carte e documenti necessari per il compimento di azioni eversive; nel caso di violenza esercitata su un carabiniere, al fine di disarmarlo ed appropriarsi della pistola d'ordinanza; nell'ipotesi di sottrazione violenta, da parte di un detenuto, delle chiavi delle celle in possesso della guardia carceraria, al fine di dare avvio ad una rivolta. Più recentemente, la Cassazione ha ritenuto integrato il delitto di rapina nella condotta di alcuni appartenenti a un "soggetto politico organizzato" che si erano impossessati violentemente della merce esposta in un supermercato, con il dichiarato intento di ottenere uno sconto sulla merce a scopo dimostrativo contro il caro vita, atteso che «in un regime democratico gli obiettivi particolari di politica economica vanno perseguiti liberamente nelle sedi istituzionali e non violando la legge penale».

Con riferimento a vicende legate a rapporti sentimentali, la giurisprudenza ha ravvisato il delitto di cui all'art. 628 c.p. anche nella condotta del soggetto che si è impossessato dei beni nella disponibilità della vittima nel corso di un litigio tra ex-amanti, mosso dallo scopo di ritorsione e vendetta, dovuto alla fine della relazione amorosa. Inoltre, la Corte ha ritenuto che perfino lo scopo di ottenere un bacio in cambio della restituzione del bene sottratto, per quanto trattasi di una finalità prettamente morale, possa integrare l'utilità che qualifica il dolo specifico del delitto di rapina.

Per quanto riguarda poi la "durata del profitto", la giurisprudenza ha correttamente evidenziato come questa sia irrilevante, ben potendosi ritenere integrato il delitto di rapina anche in presenza di un'utilità solo momentanea. Ciò in considerazione dell'assenza, con riferimento al delitto in oggetto, di un'indicazione analoga a quanto previsto dal legislatore in materia di furto d'uso ex art. 626 n.1 c.p.

Autorevole dottrina ha espresso forti critiche all'orientamento giurisprudenziale che include nel concetto di profitto ogni vantaggio o utilità perseguiti dall'agente, sottolineando come una nozione così estensiva porterebbe, con una sorta di interpretatio abrogans, ad annullare la portata selettiva del dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice, che verrebbe quindi degradato ad un profitto in re ipsa, di fatto coincidente con il movente che ha indotto l'agente a delinquere.

Inoltre un'eccessiva depatrimonializzazione del concetto di profitto non pare pienamente coerente con la collocazione sistematica del delitto di rapina, incluso nel titolo XIII del secondo libro del Codice Penale, dedicato ai delitti contro il patrimonio.

Ancora, la notevole afflittività del trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore per il reato di cui all'art. 628 c.p., apparirebbe sproporzionata qualora venisse applicata ad un fatto sostanzialmente privo di uno degli elementi costitutivi richiesti, ovvero il dolo specifico di profitto.

In dottrina sono state quindi proposte interpretazioni alternative del concetto di profitto così come delineato dalla giurisprudenza di legittimità.

Mentre un primo filone dottrinale ha qualificato il profitto come vantaggio esclusivamente economico, altra dottrina, ritenendo tale nozione eccessivamente restrittiva, ha proposto un'interpretazione intermedia, che fa leva sull'aspetto patrimoniale, e non solo meramente economico, del profitto, ricomprendendo così «ogni incremento della capacità strumentale del patrimonio di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale»: un bisogno, quindi, che può essere non solo di carattere economico, ma anche affettivo, religioso, solidaristico, etc. La tesi in questione si fonda sulla concezione giuridico-funzionale-personalistica di patrimonio che - ai fini del diritto penale - ne abbraccia una nozione non limitata all'insieme dei beni economicamente valutabili appartenenti ad un soggetto, bensì comprensiva di quei rapporti giuridici, facenti capo al medesimo, che hanno ad oggetto "cose dotate di funzione strumentale, della capacità quindi di soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali". Gli autori che aderiscono alla concezione "intermedia" di profitto hanno, quindi, ritenuto che la sussistenza del delitto di rapina debba essere esclusa nelle ipotesi in cui la condotta dell'agente non fosse finalizzata ad incrementare il suo patrimonio - inteso appunto in senso strumentale e non solo strettamente economico - , come  nei casi in cui questi abbia agito per intenti di vendetta, ritorsione, dileggio, disprezzo, ludismo.

Alla luce delle citate critiche dottrinali, emerge quindi come l'orientamento giurisprudenziale maggioritario - nell'estendere la nozione di profitto fino a ricomprendere qualsivoglia utilità che il soggetto attivo possa ottenere dalla condotta di reato - di fatto considera il fine di profitto implicito in ogni condotta di sottrazione ed impossessamento di beni altrui e, in tal modo, giunge ad una sostanziale abrogazione del dolo specifico, espressamente indicato dalla norma per l'integrazione del reato di rapina, giustificandosi con il mero richiamo ai precedenti costanti.

Proprio la vicenda oggetto della sentenza in epigrafe mette in luce le estreme conseguenze alle quali può giungere l'adozione di una nozione di profitto eccessivamente estensiva.

Nel caso di specie, infatti, il soggetto attivo non ha agito al fine di ottenere un incremento del proprio patrimonio; piuttosto, l'uomo è stato mosso da un mero intento di vendetta e ritorsione, ed ha sottratto il telefono cellulare della ex fidanzata al solo scopo di screditare l'immagine di lei agli occhi del padre, rivelandone il tradimento.

Facendo quindi applicazione dell'orientamento dottrinale riportato, la censura che potrebbe essere mossa alla sentenza in epigrafe non riguarda tanto il carattere giusto o ingiusto del profitto perseguito dall'agente, come prospettato dalla difesa dell'imputato, bensì proprio l'assenza di qualsiasi finalità di profitto.

Piuttosto, in considerazione delle modalità violente della condotta posta in essere dall'agente, parrebbe ipotizzabile una diversa qualificazione della stessa a titolo di violenza privata, in quanto l'uomo ha costretto la vittima a tollerare un quid, ovvero, nel caso in esame, l'indebita invasione nella sua sfera individuale realizzatasi con la lettura, di fronte al padre di lei, dei messaggi di carattere personale contenuti nel telefonino.

fonte: www.penalecontemporaneo.it//DIRITTO PENALE CONTEMPORANEO

venerdì 22 maggio 2015

Separazione: anche la violazione del dovere di lealtà è causa di addebito

La costante violazione dell'obbligo di lealtà reciproca che caratterizza, non soltanto con riferimento alla sfera sessuale, la comunione affettiva posta alla base del vincolo coniugale, viola i doveri nascenti dal matrimonio ed è causa di addebito della separazione.

La Cassazione – sentenza n. 7132 del 9 aprile 2015 – annulla la decisione della Corte d’Appello di Firenze che aveva escluso l’addebiltabilità della separazione non ritenendo provato il nesso causale tra il comportamento del marito, contrario al dovere di lealtà nei confronti della moglie, e l'irreversibile crisi coniugale.

La moglie aveva ottenuto ragione dal Tribunale, ma in appello i fatti narrati erano stati considerati privi di rilevanza ai fini dell’addebito per violazione di uno dei doveri matrimoniali.

La moglie lamentava, in primo luogo, che il marito avesse interrotto a sua insaputa il progetto di fecondazione assistita dopo che la stessa si era sottoposta a molteplici cure e a terapie invasive. In secondo luogo, il marito aveva nascosto originariamente la sua dipendenza dagli alcolici e successivamente, la ricaduta nel vizio, nonostante l'assistenza e la solidarietà della moglie.

Ricorrendo in Cassazione, la donna faceva rilevare che la Corte d'Appello, nell'escludere il nesso di causalità, non avrebbe considerato l’incidenza delle due violazioni sulla fiducia reciproca che invece deve caratterizzare un’unione coniugale.

La Cassazione accoglie le censure della ricorrente. La Corte d’Appello ha errato nel considerare separatamente le condotte e non ritenerle quali cause della violazione del dovere di lealtà che caratterizza la comunione spirituale e materiale posta a base dell'affectio coniugalis.

Il fatto che il marito avesse tenuto nascosto alla moglie di essere lui a non poter procreare e il fatto di aver abbandonato, a sua insaputa, il progetto di fecondazione assistita che avevano inizialmente condiviso, senza neppure avvertire la moglie, deve essere considerato come condotta causale dell’intollerabilità della convivenza. Le stesse considerazioni valgono in relazione all’alcolismo dell’uomo, tenuto celato alla moglie dopo che la stessa si era adoperata per far superare la dipendenza al marito.

Entrambe le condotte costituiscono una reiterata e costante violazione dell'obbligo di lealtà nei confronti del coniuge e hanno causato la crisi matrimoniale.

Secondo il consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, infatti, la pronuncia di addebito non può fondarsi soltanto sulla violazione dei doveri coniugali posta dall’art. 143 c.c. (Cass. civ. n. 18074/2014).

Di recente il Tribunale di Milano ha dato una chiara definizione dei doveri che nascono dal matrimonio, includendovi il dovere di lealtà che impone di mantenere, anche nei momenti di difficoltà e criticità – siano esse soggettive o oggettive, affettive o di relazione, razionali o emotive – un comportamento improntato alla correttezza e alla coerenza con i valori condivisi che hanno portato all’unione della coppia.

Violazione di un dovere coniugale è anche tradire la fiducia personale del coniuge, intesa come aspettativa di regolarità e continuità nel comportamento dei componenti la coppia, che impone di non manipolare la comunicazione, e di fornire sempre una rappresentazione autentica, non parziale né mendace, delle proprie condotte e che pretende la sincerità, non il ricorso alla menzogna e all'inganno (Trib. Milano n. 15400/2014).

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Via libera al Ddl anticorruzione, torna il falso in bilancio

La Camera ha approvato definitivamente il disegno di legge anticorruzione, votato nello stesso testo del Senato. I voti favorevoli sono stati 280, i contrari 53 e 11 gli astenuti. Il provvedimento di fatto reintroduce il falso in bilancio, rivedendone il carattere da reato di danno reato di pericolo, e aumenta le pene per i reati contro la Pubblica amministrazione.

In base alle nuove misure varate dal Parlamento le false comunicazioni sociali tornano ad essere un delitto punito con il carcere. Se la società è quotata, chi commette il falso in bilancio rischia la reclusione da 3 a 8 anni; se non quotata, da uno a 5 anni. Si procede sempre d'ufficio, a meno che non si tratti di piccole società non soggette al fallimento, per le quali vale una sanzione ridotta (da 6 mesi a 3 anni). La sanzione risulta ridotta anche nel caso di fatti di lieve entità, mentre è prevista la non punibilità per gli illeciti di particolare tenuità. L'uso di intercettazioni è possibile solo nel falso in bilancio di società quotate. Quanto alla responsabilità amministrativa degli enti, raddoppiano le sanzioni pecuniarie (fino a 600 quote nel caso di società in Borsa e a 400 per le non quotate).

La nuova normativa sui delitti contro la Pubblica amministrazione inasprisce, inoltre, le pene per peculato (da 4 anni a 10 anni e 6 mesi), corruzione propria (da 6 a 10 anni) e impropria (da 1 a 6 anni), induzione indebita (da 6 a 10 anni e 6 mesi). Quanto alla corruzione in atti giudiziari (da 6 a 12 anni nell'ipotesi base), la condanna può salire fino a 20 nei casi più gravi. Restano invece invariate le sanzioni della concussione, che viene però estesa anche all'incaricato di pubblico servizio. Chi collabora potrà godere di uno sconto di pena da un terzo a due terzi. L'attenuante per 'ravvedimento operoso' è riconosciuta a chi si adopera efficacemente per evitare conseguenze ulteriori del delitto, per assicurare le prove e individuare i colpevoli o per il sequestro delle somme trasferite. Nei reati più gravi contro la Pa non si potrà più patteggiare se prima non si è integralmente restituito il prezzo o il profitto del reato e in caso di condanna, il colpevole è comunque sempre obbligato a pagare l'equivalente del profitto o quanto illecitamente percepito. Per licenziare un dipendente pubblico corrotto basterà poi la condanna a 2 anni di carcere, mentre il divieto di contrattare con la Pa potrà arrivare fino a 5 anni.

Il Parlamento affida inoltre più poteri all'Anac, che dovrà essere informata dai Pm ogniqualvolta si proceda per reati contro la Pa. Specifici obblighi informativi verso l'Autorità nazionale anticorruzione sono posti anche a carico delle stazioni appaltanti. La legge interviene infine sui reati di mafia, con una serie di aumenti di pena.

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Il padre che sequestra il figlio affidato alla madre non può giustificarsi con l’esercizio dei doveri genitoriali

La Corte d’appello di Lecce, confermando la pronuncia di primo grado, riconosce la responsabilità dell’imputato per aver sequestrato il figlio di 10 anni portandolo nella sua abitazione ed impedendo alla madre, da cui viveva separato, di riprenderlo. L’imputato è invece assolto dal capo di imputazione di tentato omicidio, contestatogli per aver cosparso di alcol e minacciato con un accendino il piccolo che era riuscito a scappare gettandosi dal balcone.

L’uomo ricorre in Cassazione. Con il primo motivo di ricorso censura il mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio dei propri doveri genitoriali, circostanza che avrebbe dovuto escludere l’elemento soggettivo del reato. Anche sotto il profilo oggettivo, il ricorrente censura la ritenuta responsabilità non sussistendo, a suo dire, un’illegittima privazione della libertà personale del bambino posto il ruolo genitoriale ricoperto dall’agente mosso dall’intenzione di porre rimedio all’abitudine della madre di lasciare il figlio solo per strada durante le ore serali. Tale doglianza risulta infondata, poiché la sentenza impugnata argomenta in modo logico e coerente l’affermazione di responsabilità dell’imputato. La giurisprudenza ritiene infatti sussistente il delitto di sequestro di persona anche nei casi in cui il soggetto passivo del delitto sia un minore o addirittura un neonato.

Con riferimento al caso del sequestro di un infante d’età minore di 5 mesi è stato inoltre affermato che la vittima è in questo caso «strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive, rispetto all’obiettivo perseguito dall’agente». L’adempimento dei doveri genitoriali può astrattamente assumere rilevanza poiché, evidentemente, la libertà di locomozione del minore deve essere contemperata con il diritto di genitore. Conseguentemente, non ogni privazione di libertà assume rilevanza penale, purché essa sia realmente e strettamente giustificata da una finalità educativa. Nel caso di specie non risulta che il bambino si trovasse in una situazione di pericolo tale da giustificare la condotta del padre che esula dunque da una qualsivoglia finalità educativa. Allo stesso modo, non può ritenersi illogica la motivazione della sentenza nella parte in cui considera anche la condotta di tentato omicidio, imputazione da cui l’imputato è stato assolto, ai fini della valutazione complessiva dell’episodio.

Con ulteriore doglianza il ricorrente sostiene l’erronea qualificazione giuridica della propria condotta, ritenendo corretto un inquadramento della stessa in termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni oppure di sottrazione di persona incapace. Ancora una volta, la prospettazione del ricorrente risulta priva di fondamento, ben potendo il reato di sequestro di persona concorrere con entrambe le fattispecie invocate dal ricorrente.

La Cassazione (sentenza 19224/15) precisa che, quanto alla fattispecie dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la privazione della libertà di locomozione, elemento costitutivo del sequestro di persona, è invece estranea al delitto in parola, potendo dunque i due reati concorrere «quando l’agente sia mosso dal fine di esercitare un preteso diritto e commetta il primo per eseguire il secondo». Rispetto alla sottrazione di persona incapace, il sequestro di persona si distingue per la finalità di tutela della libertà personale del soggetto, la cui inviolabilità è garantita dell’art. 13 Cost., mentre il delitto di cui all’art. 574 c.p. risponde alla ratio di tutela della potestà genitoriale, risultando le due fattispecie non alternative, né assorbenti, potendo bensì concorrere le due fattispecie per la loro intrinseca diversità strutturale e funzionale. Per questi motivi, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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mercoledì 20 maggio 2015

Minacce verso l’ex-compagna, il “turbinio di emozioni” non esclude il dolo

Il giudice di pace di Chiari assolve un imputato dal reato di minaccia (art. 612 c.p.) perché il fatto non costituiva reato. Nonostante l’uomo avesse effettivamente pronunciato le frasi contestate all’indirizzo dell’ex-compagna, secondo il giudice mancava l’elemento psicologico del reato, in quanto la volontà dell’imputato era compromessa «da un turbinio di emozioni e sentimenti di varia natura esplicantesi in comportamenti più a scapito di sé stesso che della ex-compagna», con cui era in contrasto per le modalità di visita della figlia.

Il pm ricorre in Cassazione, contestando l’esclusione della sussistenza dell’elemento soggettivo e deducendo che l’efficacia intimidatoria della minaccia deve essere apprezzata in astratto e non rispetto all’effettivo turbamento generato nella persona offesa. La Cassazione (sentenza 18184/15) sottolinea che il riferimento alla necessità di accertare l’effettivo timore causato nella persona offesa dall’espressione adoperata, anche se inesatto, non aveva rilievo nel caso di specie, in quanto il gdp non aveva escluso la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato.

I giudici di legittimità rilevano però che la sentenza, senza giungere ad escludere la capacità di intendere e di volere dell’imputato, sembrava aver dato rilievo a stati emotivi penalmente irrilevanti, ai sensi dell’art. 90 c.p., e, a fronte del tenore dell’espressione indirizzata contro la persona offesa, valorizzava un istinto di morte dell’imputato, il quale però non escludeva l’elemento soggettivo del reato.

Nel delitto di minaccia, il dolo, come componente del fatto contestato, consiste nella cosciente volontà di minacciare ad altri un ingiusto danno ed è diretto a provocare l’intimidazione del soggetto passivo, senza che sia necessario che in tale volontà sia compreso il proposito di tradurre in atto il male minacciato: oggetto del delitto è unicamente l’azione intimidatrice. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e rimanda la decisione ai giudici di merito.

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Nessuna giustificazione per la propria scheda SIM nel cellulare rubato: il dolo non può essere escluso a priori

L’uso di una scheda intestata su un telefono rubato può essere indicativa, in assenza di giustificazioni, sia della disponibilità dell’oggetto da parte dell’intestatario sia della consapevolezza dell’illiceità della provenienza illecita dell’apparecchio, «almeno nella dimensione attenuata del dolo per accettazione del rischio». Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 18525/15.

Il caso

La Corte d’appello di Pescara assolve un’imputata dal reato di ricettazione di un telefono. Secondo i giudici, l’inserimento nel telefono rubato della scheda SIM intestata all’imputata non era sufficiente a provare il dolo della ricettazione, in quanto «la nota tecnica del tracciamento IMEI dovrebbe indurre il ricettatore ad inserire una scheda intestata ad altri o a persona addirittura inesistente», considerando anche la facilità di reperimento di carte SIM.

Il Procuratore generale ricorre in Cassazione, contestando l’esclusione dell’elemento soggettivo: l’utilizzo di un telefono rubato con una scheda intestata a suo nome non può escludere la responsabilità dell’imputata, «considerata la difficoltà di procurarsi una scheda ad altri intestata e tenuto conto del fatto che la SIM card veniva inserita nel telefono subito dopo il furto», senza tralasciare che la donna non ha fornito alcuna giustificazione e non ci sono prove del regolare passaggio di proprietà del telefono.

La Cassazione innanzitutto ricorda che, per configurare il delitto di ricettazione è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, «senza che sia indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto». La prova si può ricavare anche da fattori indiretti, se la loro coordinazione logica sia tale da dimostrare la malafede. La consapevolezza della provenienza illecita può desumersi anche da altri elementi considerati dall’art. 712 c.p. per il caso di incauto acquisto. Ricorre poi, il dolo nella forma eventuale quando l’agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, «che invece connota l’ipotesi contravvenzionale dell’acquisto di cose di sospetta provenienza».

Nel caso, il telefono oggetto di furto era stato utilizzato con la scheda SIM intestata all’imputata, la quale non aveva fornito giustificazioni. L’introduzione nell’apparecchio telefonico di una scheda SIM, insieme all’assenza di giustificazioni proveniente dall’intestatario circa le ragioni di tale utilizzo, possono, secondo gli Ermellini, «concorrere ad integrare un quadro indiziario univocamente indicativo della consumazione del reato»: l’uso di una scheda intestata su un telefono oggetto di furto può essere indicativa, in assenza di giustificazioni, sia della disponibilità dell’oggetto da parte dell’intestatario sia della consapevolezza dell’illiceità della provenienza illecita dell’apparecchio, «almeno nella dimensione attenuata del dolo per accettazione del rischio». Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglie il ricorso e rimanda la decisione alla Corte d’appello di Perugia.

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Quasi 100 grammi di eroina a disposizione: ‘principio attivo’ contenuto, ma lo spaccio è comunque grave

Giovane beccato con 93 grammi di eroina a disposizione. Impensabile, ovviamente, l’idea di una scorta ad uso esclusivamente personale. Consequenziale considerare la sostanza stupefacente destinata ad un ampio giro di spaccio. Condanna inevitabile per l’uomo, che non può neanche puntare all’ipotesi della «lieve entità». A suo sfavore i precedenti penali – che ne attestano una notevole professionalità nel settore... – e il fatto che dal quantitativo di droga da lui posseduto fosse possibile tirar fuori ben 46 dosi, ricorrendo, peraltro, a materiali ‘di taglio’ pericolosi per i consumatori (Cassazione, sentenza 18748/15).

Il caso

Non hanno avuto dubbi i giudici di merito sulla «responsabilità» dell’uomo: per loro, difatti, la droga rinvenuta – «quasi 100 grammi di eroina» – è destinata a una grossa «attività di spaccio». Insostenibile, quindi, sempre ad avviso dei giudici, l’idea della «lieve entità» dei fatti addebitati all’uomo. Su questo punto, però, cioè sulla «lieve entità», il presunto spacciatore ribatte, di nuovo, col ricorso in Cassazione, richiamando, a proprio favore, la «esiguità del ‘principio attivo’» e l’«assenza di bilancini di precisione e di materiali da confezionamento della sostanza stupefacente».

Nonostante tutto, però, l’obiettivo della «lieve entità» diventa una chimera per l’uomo. Anche per i giudici del ‘Palazzaccio’, difatti, è lapalissiana la gravità della condotta tenuta dallo spacciatore. Già «il dato ponderale» è «ostativo alla configurabilità della lieve entità», poiché l’uomo è stato «trovato in possesso di circa 100 grammi di eroina, che, pur in presenza di una percentuale di ‘principio attivo’ non particolarmente elevata, risultano comunque idonei al confezionamento di 46 dosi medie singole» e quindi tali «da consentire una reiterata attività di spaccio, rivolta a svariati clienti ed atta a procurare guadagni di una certa consistenza». E su questo fronte, aggiungono i giudici, è logico pensare che «lo stupefacente fosse destinato a collaudati, e non occasionali, canali di spaccio», alla luce della «‘professionalità’ acquisita, nel campo» dall’uomo e «attestata da ben quattro precedenti penali specifici, per fatti posti in essere dal 2001 al 2010»

Per chiudere il cerchio, poi, non si può trascurare un altro particolare non secondario: proprio la presenza di «un quantum di ‘principio attivo’ non molto elevato» conduce a ritenere scontato l’«utilizzo di materiali ‘da taglio’», con «conseguente maggior pregiudizio per la salute dei consumatori». Di conseguenza, tirando le somme, per i giudici del ‘Palazzaccio’ è da confermare in toto la condanna nei confronti dell’uomo, azzerando completamente l’ipotesi della «lieve entità».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Quasi 100 grammi di eroina a disposizione: ‘principio attivo’ contenuto, ma lo spaccio è comunque grave - La Stampa

sabato 16 maggio 2015

Versare il mantenimento all’ex in modo parziale e con ritardo è reato

Violazione degli obblighi di assistenza familiare: l’inadempimento solo parziale non impedisce l’incriminazione.

Un mese sì e uno no; e l’altro, magari con diversi giorni di ritardo: versare a singhiozzo, o con una lentezza estenuante, il mantenimento alla ex moglie e ai figli fa scattare il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Non ci si salva neanche dimostrando di aver adempiuto saltuariamente e solo laddove le condizioni lo consentivano. È quanto precisato dalla Cassazione con una sentenza di poche ore fa [1].

 Inutile, secondo i giudici supremi, tentare di ottenere uno sconto sulla condanna facendo leva sul fatto che le inadempienze siano state sporadiche ed estemporanee. La presenza di un sia pur minimo reddito, tanto da consentire di aiutare la moglie e i figli, garantendo loro i necessari mezzi di sussistenza, non conosce sconti.

 La condizione di impossibilità economica dell’obbligato esclude la possibilità che si possa configurare il reato solo se essa si estenda a tutto il periodo di tempo nel quale si sono reiterate le inadempienze e se consista in una situazione incolpevole di indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita degli altri familiari.

Pertanto, la responsabilità per omessa prestazione dei mezzi di sussistenza non è giustificata dall’incapacità di adempiere ogniqualvolta questa sia dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’agente (si pensi al disoccupato che non si preoccupa di trovare nuova occupazione o che si sia dimesso dal lavoro per incompatibilità ambientali).

 Dunque, l’indicazione della condizione di disoccupato non è di per sé solo sufficiente a far venire meno l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza alla famiglia: è necessario che, oltre a ciò, il soggetto obbligato al versamento dimostri che le sue difficoltà economiche si siano tradotte in uno stato di vera e propria indigenza economica e nell’impossibilità di adempiere, sia pure in parte, alla suddetta prestazione [2].

[1] Cass. sent. n. 20133/15 del 14.05.15.

[2] Cass. sent. n. 35612/2011. Trib. Napoli, sent. n. 12494 del 19.10.2012.


Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 31 marzo – 14 maggio 2015, n. 20133
Presidente Agrò – Relatore Rotundo
Fatto e diritto
1. C.R. ha proposto, tramite il suo difensore, ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale, in data 22­5-14, la Corte di Appello di Caltanissetta, sezione 2° penale, ha confermato la condanna, con attenuanti generiche, alla pena di mesi due di reclusione e euro duecento di multa pronunciata nei suoi confronti in primo grado per il reato di cui all’art. 570 c.p., per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla moglie D.S.M., ai figli minori E.L.e R.S. e al figlio maggiorenne, non versando o versando in modo parziale e non puntuale l’assegno di mantenimento pari a euro novanta mensili stabilito dal Tribunale civile di Caltanissetta in sede di separazione. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all’art. 570 c.p. a lui ascritto, sostenendo che a Corte di Appello non avrebbe adeguatamente considerato che nel caso in esame si sarebbe trattato di inadempienze sporadiche ed estemporanee, non volontarie, non serie e non sufficientemente protratte. A parte il fatto che nella sentenza impugnata si sarebbe errato neòl definire esiguo l’importo mensile da versare, posto che la somma di novanta euro mensili fissata dal Tribunale come assegno di mantenimento andava rapportata a quella di duecentoquaranta euro mensili, percepita quale pensione di invalidità da esso C..

2. II ricorso deve essere dichiarato inammissibile per genericità e per manifesta infondatezza.

La Corte di Appello ha, infatti, già esaminato e respinto, con adeguata motivazione, le censure oggi riproposte, rilevando che le risultanze processuali avevano dimostrato che l’imputato, pur essendo formalmente disoccupato e invalido civile, aveva sempre lavorato presso il negozio di mobili dei fratello, ricevendone un congruo reddito, tanto da poter aiutare economicamente il padre che versava in pessime condizioni e, tuttavia, non aveva versato per lunghi periodi alla moglie ed ai figli i necessari mezzi di sussistenza.

Ne deriva che l’attuale ricorso risulta sostanzialmente basato su doglianze non consentite in sede di giudizio di legittimità. Le censure dei ricorrente attengono invero alla valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimità quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno preso in esame tutte le deduzioni difensive e sono pervenuti alla conferma della sentenza di primo grado attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.

3. Consegue alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorso la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

fonte: www.laleggepertutti.it/Versare il mantenimento all’ex in modo parziale e con ritardo è reato

mercoledì 13 maggio 2015

Primo test positivo, secondo test non effettuato: sufficienti le condizioni dell’automobilista

Primo test positivo, eppure viene ritenuta necessaria una ulteriore analisi. A sgomberare il campo dai dubbi, però, sono le condizioni dell’uomo, fermato alla guida della propria vettura: egli «si presentava con occhi notevolmente lucidi e con le pupille dilatate, e manifestava, altresì, un certo tremore e nervosismo». Inevitabile e legittima, di conseguenza, la condanna per l’automobilista, ritenuto responsabile di aver guidato dopo aver assunto »sostanze stupefacenti, del tipo ‘cannabinoidi’» (Cassazione, sentenza 16678/15).

Il caso

Lettura davvero semplice, secondo i giudici di merito: lo «stato di alterazione psico-fisica» dell’uomo, fermato alla guida della propria vettura, «risulta dimostrato dal test» effettuato sul «campione di urine». Nessuna incertezza, quindi, sul fatto che egli abbia guidato «sotto l’effetto di sostanze stupefacenti», «cannabinoidi» per la precisione. Logica, perciò, la condanna dell’uomo per aver violato, in modo palese, il Codice della Strada.

Secondo l’automobilista, però, i giudici hanno commesso un grave errore. Essi, in sostanza, hanno trascurato il fatto che nel «risultato del primo test» – realizzato «nel laboratorio di analisi chimico-cliniche» di un’azienda ospedaliera – si evidenziava la «necessità di un secondo test di conferma», mai effettuato. Come si può, allora, arrivare alla condanna, domanda l’uomo in Cassazione? Per i giudici del ‘Palazzaccio’, però, non si può ignorare che, oltre a un «accertamento tecnico-biologico», possono rivelarsi decisive, come in questo caso, «altre circostanze» che «provino la situazione ai alterazione psico-fisica»...

Di conseguenza, va riconosciuta la correttezza della considerazione effettuata dall’uomo – «l’analisi» effettuata sull’automobilista «è documentata da un certificato che dà indicazioni della positività ai cannabinoidi», e «richiede di essere confermata da un’ulteriore analisi per poter dare certezza dell’esito sul piano medico-legale» –, ma, allo stesso tempo, va tenuta presente la «sintomatologia» manifestata dall’automobilista al momento del controllo: egli, viene ricordato, «quando venne fermato, si presentava ai militari con occhi notevolmente lucidi e con le pupille dilatate, e manifestava, altresì, un certo tremore e nervosismo».

E' evidente il ‘peso specifico’ attribuito alle precarie condizioni psico-fisiche dell’uomo. E tale elemento, abbinato al risultato del «test», consente di ritenere certa «la presenza nell’organismo dell’uomo di tracce dimostrative dell’assunzione di sostanze stupefacenti». Inevitabili le conclusioni tratte dai giudici: pienamente legittima la condanna nei confronti dell’automobilista.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Primo test positivo, secondo test non effettuato: sufficienti le condizioni dell’automobilista - La Stampa

Non si sfugge al Fisco se si mantiene il proprio domicilio in Italia

Per sfuggire al Fisco stabilendo la propria residenza in uno Stato estero bisogna essere scaltri, e saperlo fare bene. Soprattutto, non si può tenere il piede in due scarpe, fissando la propria residenza oltre confine per poi continuare a risiedere in Italia e qui mantenere la propria famiglia e le proprie società, classificando addirittura la propria casa di proprietà come “dimora abituale”.

In casi del genere, resistere ai controlli è difficile, come è successo ad un contribuente che aveva spostato la sua residenza a San Marino per motivi giudicati squisitamente fiscali, e al quale era stato accertato un maggiore imponibile ai fini di IRPEF, ILOR e contributo sanitario. La vicenda è arrivata in Cassazione, la quale ha ribadito espresso il suo parere con la sentenza dell’8 maggio 2015, n. 9349.

La Commissione Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente, constatando semplicemente come nel periodo interessato il contribuente fosse residente all’estero, tanto da non poter figurare come soggetto passivo d’imposta in Italia. Contrariamente si era espressa la Commissione Regionale, che riscontrò come il contribuente mantenesse il domicilio civilistico in Italia, riconoscendo la fondatezza del recupero ai fini dell’art. 2, D.P.R. n. 917/1986. La Cassazione ha seguito questa stessa linea. Infatti, sottolinea la Suprema Corte, lo stesso articolo recita: “soggetti passivi dell'imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato.

Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. I Giudici hanno ricordato inoltre come per l’art. 43 del c.c.“il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi”. Ne risulta che, in tema di imposta sui redditi, il soggetto passivo d’imposta è anche il cittadino italiano che, pur risiedendo all’estero ha, per la maggior parte del periodo di imposta, stabilito in Italia il suo domicilio.

Fonte: www.fiscopiu.it/Non si sfugge al Fisco se si mantiene il proprio domicilio in Italia - La Stampa

martedì 12 maggio 2015

Troppo alcool per l'anziano: condannato per aver guidato la propria bici

Forse qualche bicchiere di vino di troppo, o, magari, un ‘assaggio’ di grappa, certo è che l’andamento, su due ruote, dell’arzillo vecchietto pare davvero strano... Sospetti legittimi, come conferma l’etilometro: il tasso alcolemico dell’uomo, fermato alla guida della propria bicicletta, è pari a 0,9 grammi per litro. Consequenziale, e legittima, la condanna, nonostante il veicolo impiegato dall’uomo non sia dotato di motore (Cassazione, sentenza 17684/15).

Il caso

Linea di pensiero comune per il Giudice per le indagini preliminari e per i giudici d’Appello: da sanzionare un uomo – di quasi 75 anni – beccato alticcio a guidare la propria bicicletta. Secondo l’anziano amante delle ‘due ruote’, però, vi è una evidente «violazione di legge», poiché il reato contestatogli, ossia l’aver «guidato sotto l’effetto dell’alcool», non è plausibile laddove, come in questo caso, «non si guidi un veicolo a motore». Da rimettere in discussione, quindi, secondo l’uomo, la condanna. Ma le obiezioni mosse dal ciclista non sono ritenute dotate di valore dai giudici della Cassazione. Questi ultimi, difatti, ribadiscono la «rilevanza penale» della «condotta di guida in stato di ebbrezza» qualora «il mezzo di circolazione sia una bicicletta», e ciò «indipendentemente dall’applicabilità delle sanzioni amministrative accessorie» – come la «sospensione della patente di guida» – previste dalla «norma». Di conseguenza, «il reato di guida in stato di ebbrezza può essere commesso» anche «attraverso la conduzione di una bicicletta», rivestendo, in tale ottica, «un ruolo decisivo la concreta idoneità del mezzo» – alla luce delle precarie condizioni della persona che utilizza quel mezzo – a «interferire sulle generali condizioni di regolarità e di sicurezza della circolazione stradale». Da confermare, senza alcun dubbio, concludono i giudici, la condanna per l’anziano ciclista.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /Troppo alcool per l'anziano: condannato per aver guidato la propria bici - La Stampa

sabato 9 maggio 2015

Il destinatario va cercato o notifica ko

La notificazione eseguita ai sensi dell’articolo 140 del cpc, prevista nei casi di irreperibilità temporanea del destinatario presso la sua abitazione, è nulla se l’agente notificatore non indica le ragioni specifiche per le quali ha dovuto ricorrere a tale procedura e, soprattutto, se non dà contezza delle infruttuose ricerche del destinatario nel luogo ove doveva avvenire la notifica. Tali informazioni devono essere apposte sulla relata di notifica, per consentire, a posteriori, di verificare la sussistenza di tutte le condizioni per ricorrere alla notificazione del plico con deposito presso la casa comunale, nonché il compimento di tutte le formalità ivi previste. Con queste motivazioni, che si leggono nella sentenza n. 3188/11/14 della Ctp di Bari (depositata lo scorso 12 dicembre), è stata annullata una cartella di pagamento recante iscrizioni a ruolo per oltre 2 milioni di euro. Quanto stabilito dai giudici pugliesi ricalca quello che è il pensiero della Cassazione espresso nella sentenza n. 20098 del 18 settembre 2009. In questa sentenza il collegio supremo stabilisce che per ricorrere alla procedura di cui all’articolo 140 cpc il notificatore dovrà indicare le ragioni per cui non ha proceduto secondo le forme di cui all’articolo 139 cpc descrivendo, in particolare le infruttuose ricerche del destinatario.

fonte: www.italiaoggi.it//Il destinatario va cercato o notifica ko - News - Italiaoggi

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...