venerdì 27 febbraio 2015

Corte Ue, è rifugiato anche il disertore

La Corte di giustizia Ue allarga le maglie della direttiva europea sullo status di rifugiato. La protezione, nel caso in cui il cittadino di un paese terzo ha timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, spetta infatti a tutto il personale militare, compreso quello logistico e di sostegno. Mentre se il richiedente ha omesso di ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza, è esclusa ogni protezione, a meno che il richiedente stesso non dimostri che non aveva a disposizione nessuna procedura di questo genere. Lo afferma la Corte di giustizia europea nella sentenza (causa C-472/13) emanata ieri dove ha precisato le condizioni alle quali a un disertore proveniente da uno stato terzo può essere concesso asilo nell’Unione europea, esaminando il caso di un soldato americano che aveva chiesto asilo in Germania, non ottenendolo. La Corte Ue ha dichiarato, tra l’altro, che la protezione ricomprende la situazione in cui il servizio militare prestato comporterebbe di per sé, in un determinato conflitto, la commissione di crimini di guerra, comprese le situazioni in cui il richiedente asilo parteciperebbe solo indirettamente alla commissione di detti crimini in quanto, esercitando le sue funzioni, fornirebbe, con ragionevole plausibilità, un sostegno indispensabile alla preparazione o all’esecuzione degli stessi; detta protezione, inoltre, non riguarda esclusivamente le situazioni in cui è accertato che sono stati già commessi crimini di guerra o le situazioni che potrebbero rientrare nella sfera di competenza della Corte penale internazionale, ma anche quelle in cui il richiedente asilo può stabilire l’esistenza di un’alta probabilità che siffatti crimini siano commessi. Infine, la valutazione dei fatti spettante alle sole autorità nazionali, sotto il controllo del giudice, per qualificare la situazione di servizio controversa, deve basarsi su un insieme di indizi tali da stabilire che la situazione del servizio rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti.

fonte: www.italiaoggi.it//Corte Ue, è ifugiato anche il disertore - News - Italiaoggi

Se l’apparecchiatura “telelaser” è omologata, il verbale è salvo

In tema di accertamento della violazione dei limiti di velocità a mezzo “telelaser”, non è richiesto che l'apparecchiatura sia anche munita di dispositivi in grado di assicurare una documentazione, con modalità automatiche quali la fotografia o lo scontrino dell’accertamento dell’infrazione, in quanto la fonte primaria prevede solo che le apparecchiature elettroniche possano costituire fonte di prova, se debitamente omologate. Così si è espressa la Cassazione nell’ordinanza 1778/15.

Il caso

Il Giudice di pace annullava il verbale della polizia municipale di Sassari con il quale era stata accertata, mediante apparecchiatura “telelaser”, e immediatamente contestata, la violazione dell’art. 142, comma 8 del d.lgs. n. 285/1992 per avere superato di 33 km/h il limite massimo di velocità, venendo altresì irrogata la sanzione amministrativa di 155,00 euro e la decurtazione di 5 punti della patente di guida. Il Tribunale di Sassari accoglieva l’appello del Comune. Il conducente ha proposto ricorso per cassazione contro tale decisione. Pagamento delle spese di lite. Con un primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge, laddove il Tribunale lo avrebbe condannato al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, anche se nel primo grado il Comune non si sarebbe avvalso della facoltà di ricorrere ad una difesa tecnica, stando in giudizio personalmente. Il Collegio ritiene tale motivo parzialmente fondato, proprio perché la parte che sta in giudizio personalmente può richiedere solo il rimborso delle spese vive sopportate.

Con altro motivo, il ricorrente si lamenta del fatto che il Giudice d’appello ha ritenuto idoneo alla segnalazione della presenza dell’apparecchiatura di rilievo della velocità, un cartello posto all’interno di un cantiere e non corrispondente alle specifiche indicate nel regolamento di attuazione. Tale motivo non può trovare accoglimento in quanto la motivazione della sentenza impugnata non fornisce alcun indizio che il cartello di cui afferma la presenza fosse difforme dalle prescrizioni regolamentari. Continua il Collegio, affermando che, se si fosse riscontrata tale difformità, ciò non avrebbe integrato i vizi di violazione di legge lamentati dal ricorrente, in quanto, mentre l’adozione dei cartelli di preannunzio corrispondenti alle caratteristiche regolamentari, determina l’insorgenza di una presunzione juris et de jure di idoneità di essi a consentire il preavviso della esistenza di un successivo dispositivo di misurazione della velocità, la sussistenza di preavvisi non regolamentari deve essere indagata, caso per caso, al fine di scrutinarne l’efficacia e tale delibazione potrebbe essere sollecitata in sede di legittimità solo nella prospettiva di un vizio di omessa motivazione.

È inammissibile anche l’ulteriore motivo in quanto generico e con formulazione ipotetica degli assunti che, se coerentemente valutati, condurrebbero a negare sempre e comunque la validità di una rilevazione strumentale della velocità eccedente i limiti se non fosse accompagnata da un rilievo fotografico, quale quella operata dai “telelaser”. Ricorda, infatti, il Collegio che è principio consolidato quello per cui in tema di accertamento della violazione dei limiti di velocità a mezzo “telelaser”, non è richiesto che detta apparecchiatura sia anche munita di dispositivi in grado di assicurare una documentazione, con modalità automatiche quali la ripresa dell’immagine visualizzata sul display (fotografia) o la riproduzione meccanica dei dati visualizzati (scontrino) dell’accertamento dell’infrazione, in quanto la fonte primaria prevede solo che le apparecchiature elettroniche possano costituire fonte di prova, se debitamente omologate. Per tali ragioni, la Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso e rigettato i restanti. Ha, pertanto, cassato la decisione impugnata sul capo relativo alla condanna alle spese ed ha rinviato al Tribunale di Sassari, in diversa composizione, per il loro ricalcolo e per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Se l’apparecchiatura “telelaser” è omologata, il verbale è salvo

Prima i fumi dell’alcool, poi la sella della bici: condannato

Fermato, sottoposto ad etilometro e prontamente sanzionato, visti i risultati dei due ‘accertamenti’, che hanno accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, prima, e a 2,23 grammi per litro, poi. Tutto regolare, ma a sorprendere è che l’uomo, all’epoca del controllo, non fosse alla guida di un’automobile, bensì della propria bicicletta. Tale particolare, però, non modifica, né alleggerisce, le accuse: legittima, e definitiva, quindi, la condanna a quasi tre mesi di reclusione (Cassazione, sentenza 4893/15).

Linea di pensiero comune per i giudici di merito: nessun dubbio, difatti, viene espresso sulla gravità della condotta addebitata all’uomo, beccato ubriaco alla guida della «propria bicicletta». Conseguenziale è la condanna, acclarato il «reato di guida in stato di ebbrezza alcolica», a «due mesi e venti giorni di reclusione» e «800 euro di ammenda». Fortissime, però, le contestazioni mosse dall’uomo per la decisione della Corte d’Appello, identica a quella pronunciata in Tribunale: così, egli, col ricorso in Cassazione, sostiene la non «applicabilità della disciplina sanzionatoria, riferita al reato di guida in stato di ebbrezza, anche in relazione all’uso di veicoli non motorizzati». E, poi, a dare sostanza alla propria difesa l’uomo parla di «inoffensività» della sua «condotta», anche alla luce della situazione di emergenza che, afferma, si era trovato ad affrontare, ossia una terribile «cefalea ‘a grappolo’», e che lo aveva spinto a «recarsi con urgenza presso la propria abitazione».

Di fronte alle critiche mosse dall’uomo verso la condanna, i giudici del ‘Palazzaccio’ prendono posizione in maniera netta, ribadendo che «il reato di guida in stato di ebbrezza può essere commesso attraverso la conduzione di una bicicletta, a tal fine rivestendo un ruolo decisivo la concreta idoneità del mezzo usato a interferire sulle generali condizioni di regolarità e» soprattutto «di sicurezza della circolazione stradale». Allo stesso tempo, però, viene anche chiarito che è risibile la tesi difensiva della presunta «inoffensività della condotta» addebitata all’uomo. Ciò perché è lapalissiana «l’idoneità della conduzione di una bicicletta in condizioni di ebbrezza alcolica» a «interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada». Meglio, infine, stendere un velo pietoso, secondo i giudici, sulla davvero ipotetica «necessità» dell’uomo di correre a casa... Quadro chiarissimo, quindi, e conclusioni inevitabili: legittima e confermata, in via definitiva, la condanna, per il ciclista ubriaco, a «due mesi e venti giorni di arresto» e al pagamento di «800 euro di multa».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Prima i fumi dell’alcool, poi la sella della bici: condannato

giovedì 26 febbraio 2015

Pensione al fallito, la sua morte non trasferisce il diritto al coniuge

Il giudice delegato al fallimento di due coniugi rigettava l’istanza della donna volta ad ottenere, per il periodo successivo alla morte del marito, la corresponsione della somma corrispondente alla quota della pensione di cui era stato autorizzato il pagamento all’uomo.

Il tribunale confermava la decisione, rilevando che la pretesa non era un diritto, che l’attivo del fallimento non poteva essere depauperato e che non sussisteva lo stato di bisogno della fallita, considerando le esigenze del nucleo familiare ed il fatto che la donna disponeva di un trattamento di quiescenza di cui era stata autorizzata la corresponsione. Così, la donna ricorreva in Cassazione, poiché i provvedimenti che avevano determinato le quote di stipendi e pensioni attribuite ai coniugi erano stati emessi nell’interesse non loro personale, ma della famiglia ed in quanto era irrilevante l’eventuale riduzione delle aspettative di soddisfacimento dei creditori.

La Suprema Corte (sentenza 2658/15) afferma che il provvedimento con cui il giudice delegato determina i limiti entro cui sono esclusi dal fallimento gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, le pensioni, i salari, nonché ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia, ha carattere dichiarativo, essendo destinato ad individuare i limiti quantitativi di un diritto del fallito che ad esso preesiste. Questo decreto, pur tenendo presenti le necessità della famiglia del fallito, dichiara i limiti di un diritto che appartiene solamente a lui. Perciò, in caso di corresponsione di pensione, il diritto si estingue con la morte del fallito, per la conseguente cessazione del rapporto pensionistico di cui lo stesso era titolare, senza che si possa prospettare un trasferimento del diritto in favore del coniuge sotto forma di pensione di reversibilità, il cui trattamento costituisce oggetto di un autonomo diritto, anche se con presupposti derivanti dal rapporto pensionistico del coniuge deceduto. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Pensione al fallito, la sua morte non trasferisce il diritto al coniuge

Slot-machine senza nullaosta, la pena può anche essere solo amministrativa

La Corte d’appello di Catania condannava un imputato per il reato di esercizio di giochi d’azzardo, mediante una slot-machine, priva del relativo nullaosta, che erogava vincite in denaro. L’imputato ricorreva in Cassazione, contestando ai giudici di merito di aver ravvisato la sussistenza del reato per il solo fatto che l’apparecchio sequestrato fosse privo di nullaosta, senza valutare la sussistenza di fini di lucro e non considerando l’entità della posta, la durata delle partite, la possibile loro ripetizione ed il tipo di premi erogabili in denaro o in natura.

La Suprema Corte (sentenza 6183/15) rileva che i giudici d’appello avevano riconosciuto gli elementi costitutivi del reato nella natura dell’apparecchio elettronico che erogava vincite in denaro e nella mancanza del relativo nullaosta. Secondo la Cassazione, in mancanza di una compiuta descrizione dell’apparecchio oggetto dell’imputazione, si deve ritenere che il richiamo normativo operato debba essere riferito alla categoria degli apparecchi considerati dal legislatore in linea di principio leciti, in quanto in essi, «insieme con l'elemento aleatorio sono presenti anche elementi di abilità, che consentono al giocatore la possibilità di scegliere, all'avvio o nel corso della partita, la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli tra quelle proposte dal gioco, il costo della partita non supera 1 euro, la durata minima della partita è di quattro secondi e che distribuiscono vincite in denaro, ciascuna comunque di valore non superiore a 100 euro, erogate dalla macchina».

Per questi apparecchi, la mancanza di titoli abilitativi è sanzionata in via amministrativa. È una disciplina che si pone in rapporto di specialità con quella penalistica del gioco d’azzardo, in quanto qualifica come leciti, sottoponendoli ai provvedimenti di assenso, dei giochi che in astratto rientrerebbero nella categoria dei giochi d’azzardo secondo l'articolo 721 del codice penale, che prevede come elementi necessari il fine di lucro e l’aleatorietà della vincita. I giudici di legittimità ritengono, invece, che tali giochi siano consentiti, «perché giocati attraverso apparecchiature elettroniche e con puntate di modesta entità economica». Sanzione amministrativa. Perciò, il caso di specie rientrava, a causa della mancanza del nullaosta, tra quelle sanzionate in via amministrativa. Di conseguenza, la Corte di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata, in quanto il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Slot-machine senza nullaosta, la pena può anche essere solo amministrativa

Problemi psichiatrici per madre e padre, inidonei come genitori: figlia da salvare con l’adozione

Patologie e disturbi, a livello psichiatrico, per la coppia di genitori. Conseguenze negative evidenti, purtroppo, nel rapporto – inesistente, in realtà – con la figlia biologica, che – neanche riconosciuta alla nascita –, proprio a causa dell’indifferenza mostrata dalla madre e dal padre, manifesta anch’ella problemi psichiatrici. Assolutamente logica, quindi, la dichiarazione dello stato di abbandono della minore, dichiarata, subito dopo, adottabile da una famiglia che sia finalmente capace di assicurarle una crescita sana (Cassazione, sentenza 2676/15).

Già ai giudici di merito sono apparse evidenti le carenze dei due «genitori», i quali «dapprima non avevano riconosciuto la loro figlia biologica» e poi, anche a causa dei loro problemi «psichiatrici», «non avevano collaborato con i Servizi sociali». Conseguenziale, e inevitabile, la constatazione dello «stato di abbandono» della bambina, dichiarata «adottabile». Decisiva, soprattutto, la condotta tenuta dai due genitori, i quali, in origine, non avevano «riconosciuto la loro bambina», manifestando solo successivamente «interesse» alla sua «crescita».

Rilevante, poi, anche la constatazione delle «patologie, di tipo psichiatrico» che affliggono la bambina – per la precisione, «reazione paranoide acuta» –, e che, per i giudici, sono «effetto della indifferenza di entrambi i genitori», manifestata «dalla nascita» e «fino a poco tempo prima della decisione del Tribunale in ordine allo stato di abbandono della minore». Tardiva, come evidenziato, la ricerca, da parte dei genitori, di un rapporto con la figlia. E ciò ha ripercussioni anche sull’ultima tappa della vicenda giudiziaria, quella svoltasi nel contesto della Cassazione, dove madre e padre hanno contestato la declaratoria di «adottabilità» della bambina.

Tale obiezione, però, è assolutamente generica, e priva di senso, ribattono i giudici del ‘Palazzaccio’. Questi ultimi, difatti, osservano che i due genitori non hanno «dimostrato la esistenza di un valido rapporto con la minore, essendo mancato un rapporto di stabile e duratura convivenza», essendosi ritrovata, la bambina, ‘ospite’ di un Centro di accoglienza residenziale per minori. A rendere ancora più chiaro il quadro, poi, anche i «disordini mentali» della madre e il «sostanziale disinteresse» del padre, elementi che hanno reso praticamente impossibile la costruzione di «relazioni affettive e familiari» solide con la bambina.

Assolutamente indiscutibile, quindi, la «assenza» dei due genitori. Conseguenziale lo «stato di abbandono» della figlia, manifestatosi anche nei «comportamenti» di lei. Per questo motivo, unica ‘via d’uscita’ è offrire alla bambina un «nuovo modo di vivere, che agevoli» la sua «riabilitazione psichica», rimediando agli «effetti negativi prodotti su di lei» dalla complicata «situazione» in cui si è ritrovata a sopravvivere, non certo per proprie colpe, abbandonata da madre e padre, rivelatisi inidonei a «svolgere le funzioni genitoriali». Inevitabile, quindi, concludono i giudici, la scelta di confermare la «adottabilità» della bambina.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Problemi psichiatrici per madre e padre, inidonei come genitori: figlia da salvare con l’adozione

lunedì 23 febbraio 2015

Piccolo spacciatore tenta la fuga in bici: arresto in flagranza legittimo

Il giudice presso il tribunale di Locri non convalida l’arresto in flagranza di reato di un uomo, colto in flagranza del reato di detenzione e produzione a fini di spaccio di marijuana. La Cassazione (sentenza 5879/15) ricorda che, in riferimento all’ipotesi di arresto facoltativo, i presupposti della gravità del fatto e della pericolosità del soggetto non devono essere necessariamente presenti congiuntamente, essendo sufficiente che ricorra almeno uno dei due parametri.

Se da un lato, la polizia giudiziaria deve indicare le ragioni che l’hanno indotta ad esercitare il potere di privazione della libertà in relazione alla gravità del fatto o alla pericolosità dell’arrestato, dall’altro è sufficiente che le ragioni emergano dal contesto descrittivo del verbale d’arresto o dagli atti complementari in modo da consentire al giudice della convalida di prenderne conoscenza.

Nel caso di specie, l’indagato, vedendo sopraggiungere i carabinieri, si era dato alla fuga, senza successo. Gli venivano trovate addosso due dosi di marijuana, mentre in casa e nel garage venivano sequestrati numerosi grammi della stessa sostanza. L’arresto veniva quindi motivato come misura giustificata, in base ai trascorsi dell’uomo, alla sua personalità, al pericolo di fuga, alla reiterazione ed alla gravità del fatto, nonché, infine, alla necessità di interrompere l’azione criminosa. Doveva, perciò, ritenersi soddisfatto l’onere di motivazione dell’arresto, essendo stata illustrata una valutazione di gravità dei fatti non arbitraria ed evidenziato il pericolo di fuga. Inoltre, anche ricorrendo il fatto di lieve entità, ex art. 73, comma 5, T.U. sugli stupefacenti, pure rispetto a questo, «a maggior ragione ora che è configurato quale reato autonomo», è possibile individuare una scala di graduazione della gravità del reato, per cui sarebbe errato ritenere che la delineazione legislativa del fatto lieve non ammetta una valutazione della misura di gravità dello specifico fatto. Per questi motivi, la Corte di Cassazione annulla senza rinvio il provvedimento impugnato, in quanto l’arresto era stato legittimamente eseguito.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Piccolo spacciatore tenta la fuga in bici: arresto in flagranza legittimo

sabato 21 febbraio 2015

La Cassazione stila il vademecum per i proprietari di cani

I proprietari di cani che portano a passeggio i propri animali devono «ridurre il più possibile il rischio che questi possano lordare i beni di proprietà di terzi quali i muri di affaccio degli stabili o i mezzi di locomozione ivi parcheggiati». A chiarirlo è stata la Corte di cassazione con la sentenza n. 7082/2015. 
Il caso riguarda un uomo “colpevole” – secondo il proprietario di un edificio dichiarato di notevole interesse storico architettonico nel centro di Firenze – di aver imbrattato la facciata lasciando che il cane vi orinasse sopra. Il giudice di pace aveva dato ragione al proprietario del palazzo, mentre il Tribunale di Firenze aveva accolto l’appello del padrone del cane, alla luce del fatto che questi aveva versato dell’acqua per ripulire la macchia provocata dall’animale.
La Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale, chiarendo che «il reato contestato all’imputato (articolo 639 comma 2 Codice penale) è un delitto, per la cui configurabilità è richiesta la sussistenza del dolo anche generico. Nella fattispecie in esame – evidenzia la Suprema Corte – non è risultata provata la sussistenza del dolo». 
Ma, visto il tema di diffuso interesse sia per i proprietari di immobili sia per i proprietari di cani, e soprattutto visto che «la possibilità che un cane condotto sulla pubblica via possa imbrattare beni di proprietà di terzi è frutto di un rischio certamente prevedibile ma non altrimenti evitabile, non essendo ipotizzabile che l’animale sia costretto a espletare i propri bisogni fisiologici all’interno di luoghi di privata dimora privi di pertinenze esterne», la Cassazione ha stilato, nella sentenza 7082/2015, una sorta di vademecum per chi conduce il proprio animale domestico sulla pubblica via:
• il proprietario deve mettere in atto una attenta vigilanza sui comportamenti dell’animale;
• deve limitarne libertà di movimento in modo che non sia totale (se del caso tenendolo con un guinzaglio);
• deve intervenire con atteggiamenti tali da farlo desistere – quantomeno nell'immediatezza – dall’azione;
• nell’impossibilità di vietare al cane di fare pipì è bene portarsi dietro una bottiglietta d’acqua per ripulire.
Diversamente, si può imputare al proprietario «sciatteria o imperizia nella conduzione dell'animale», tutte situazioni riconducibili, comunque, «a colpa ma non certo al dolo».
fonte: www.ilsole24ore.com/La Cassazione stila il vademecum per i proprietari di cani - Il Sole 24 ORE

Ripartizione dell'onere della prova tra medico e paziente

Nell'ambito della responsabilità medica in tema di onere della prova dell'inadempimento e dell'inesatto adempimento, le Sezioni Unite con la storica sentenza 577/2008, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici, hanno enunciato il principio secondo cui il paziente che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento.

Il danneggiato che agisca in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria è, quindi, tenuto a provare il contratto e/o il contatto con il medico ed allegare l'inadempimento di quest'ultimo che consiste nell'aggravamento della patologia o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento restando a carico dell'obbligato –il sanitario e l'ente presso cui opera -la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.

Vertendosi in tema di responsabilità contrattuale costituisce onere del medico, per evitare la condanna, dimostrare che non vi è stato inadempimento da parte sua, ovvero, se inadempimento vi è stato, provare che l'insuccesso dell'intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà. Tale prova va fornita dimostrando di aver osservato, nell'esecuzione della prestazione sanitaria, la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione.

Nell'ambito dell'onere probatorio in ambito di responsabilità medica, una particolare rilevanza ricopre anche la prova del nesso di causalità. Deve essere il paziente a provare la connessione causale tra l'azione o l'omissione del medico e il danno da lui subito, oppure il medico a provare l'assenza di nesso di causalità tra il proprio intervento e il pregiudizio patito dal paziente?.

A lungo la giurisprudenza è stata ondivaga sul punto. La Suprema Corte, negli anni recenti, si è accostata alla prima ipotesi, affermando a più riprese che <<in tema di responsabilità dell'ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, inquadrabile nella responsabilità contrattuale, è a carico del danneggiato la prova dell'esistenza del contratto e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie), nonché del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, restando a carico di questi ultimi la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile>>. Ex multis Cass. 975/2009

Sebbene oramai la Corte costantemente attribuisca l'onere di dimostrare il nesso causale al danneggiato, appare quantomeno opportuno rilevare che grava su quest'ultimo un minore o maggiore onere probatorio a seconda che venga contestata al sanitario una responsabilità civile o penale.

Da qui le differenze tra l'accertamento penale e l'accertamento civile.

Nella sede penale, il giudicante - secondo i teoremi garantistici che governano la responsabilità da reato – ha l'onere di verificare se la condotta del medico sia stata condizione necessaria dell'evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale <<al di là di ogni ragionevole dubbio>>. In altri termini, vi è responsabilità penale solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa, l'evento, quasi certamente, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente successiva o con minore intensità lesiva.

Per altro verso, nel sistema civilistico il nesso di causalità materiale consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso secondo il principio del <<più probabile che non>>, essendo sufficiente il 51% delle probabilità di incidenza causale.

I suesposti principi risultano essere conformi al favor victimae che qualifica la funzione sociale della responsabilità civile da illecito, in relazione al diverso principio del favor rei, che, concernendo il valore della libertà, esige maggiori garanzie nel campo della repressione penale.

fonte:www.diritto24.ilsole24ore.com/Come va ripartito l'onere della prova tra medico e paziente?

Atto di citazione dinanzi al tribunale (formula)

TRIBUNALE CIVILE DI _____
Atto di citazione
 [.....], quale amministratore e legale rappresentante della [.....] S.r.l., cod. fiscale [.....], con sede in [.....] alla via [.....] ed al n. [.....] e domiciliata in [.....] alla via [.....] ed al n. [.....], presso lo studio dell'avv. [.....], cod. fiscale [.....], che la rappresenta e difende in forza di procura [.....]
 PREMESSO
 - che, in data [.....], ha consegnato a [.....], cod. fiscale [.....], titolare dell'omonima ditta, n. [.....] maglie, come da fattura n. [.....] e bolla di consegna n. [.....], questa ultima debitamente sottoscritta, per avvenuta ricezione (doc. n. 1 e 2);
 - che, il prezzo della merce fornita, era stato pattuito in complessivi € [.....], come da contratto per scrittura privata, concluso inter partes in data [.....] (doc. 3);
 - che, scaduto il termine contrattuale e nonostante i successivi solleciti, anche a mezzo del sottoscritto difensore, [.....] non ha provveduto al pagamento (doc. 4);
 - che, poiché l'attore intende chiedere la condanna di [.....] al pagamento di quanto dovuto, oltre ad interessi ed al maggior danno, come sarà in causa dimostrato;
 CITA
 [.....], , cod. fiscale [.....], titolare dell'omonima ditta, residente in [.....] alla via [.....] ed al n. [.....], a comparire davanti all'intestato tribunale di [.....], all'udienza del giorno [.....], ore di rito, davanti al giudice che verrà designato, con invito a costituirsi nelle forme di legge ed almeno venti giorni prima la fissata udienza e con avvertimento che la costituzione oltre il termine indicato darà luogo alle decadenze di cui agli art. 38 e 167 c.p.c.; e, che, comunque, in mancanza di costituzione, si procederà in sua contumacia, per sentire accogliere le seguenti
 CONCLUSIONI
 - condannare il convenuto [.....] al pagamento, a favore dell’istante [.....] S.r.l.,di complessivi € [.....] ed a titolo di prezzo di fornitura della merce come sopra identificata, oltre ad interessi legali ed al risarcimento del maggior danno, come verrà provato;
 - con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio, oltre ad IVA e CPA e come per legge.
 In via istruttoria, chiede ammettersi prova per interpello e testi, sui successivi capitoli:
 1) Vero che [.....];
 2) Vero che [.....];
 3) Vero che [.....];
 Indica, quali testi, i sigg. 1) [.....]; 2) [.....];
 Deposita i seguenti documenti:
 1) fattura n. [.....];
 2) bolla di consegna [.....];
 3) contratto di fornitura [.....];
 4) lettera raccomandata a.r. di sollecito e messa in mora [.....]
 Dichiara di voler ricevere le comunicazioni a mezzo fax al n. [.....] / indirizzo di posta elettronica certificata [.....] . (1)
 Ai fini del versamento del contributo unificato per le spese di giustizia, dichiara che il valore della causa è di € [.....]. (2)
  [.....], addì [.....]
 avv. [.....]
Procura alle liti
Io sottoscritto ___, residente in ___, via __, informato ai sensi dell’art. 4, co. 3, D. Lgs. n. 28/2010, della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ivi previsto e dei benefici fiscali di cui agli artt. 17 e 20 del medesimo decreto, come da atto allegato, e delego a rappresentarmi e difendermi in ogni fase e grado del presente procedimento e nella eventuale fase esecutiva o di opposizione, l’avv. ____ (C.F____, e-mail ____, fax ____), conferendo allo stesso ogni e più ampia facoltà di legge, ivi comprese quelle di farsi sostituire, nominare procuratori e domiciliatari, eleggere domicilio in altre sedi, disporre l’accensione e la cancellazione di formalità nei pubblici registri, sottoscrivere diffide, transigere, conciliare, riscuotere somme  trattenendole in conto spese e competenze tutte, rinunciare agli atti del giudizio ed alla eventuale esecuzione, nonché compiere quanto possa occorrere per il completamento e la definizione dell’incarico affidato, con espressa e preventiva ratifica di ogni suo atto e/o operato. Eleggo domicilio presso  il di lui studio, in ____ (___), Via ____ n. ____ (3)
Dichiaro altresì, di aver preso visione dell’informativa resa ai sensi dell’art. 13, D. Lgs. n. 196/2003 ed autorizzo il trattamento dei relativi dati.
Luogo e data _________
Visto per autentica della firma Avv. ___
Relata di notifica
Il ____ (giorno, mese, anno) in ____, a richiesta dell’Avv. ____ per il proprio cliente ____ io sottoscritto Uff. Giud. addetto alle notifiche presso l’ufficio unico dell’intestato Tribunale, ho notificato il suesteso atto di citazione alla Società ____ S.l.r., in persona del l.r.p.t. Sig. ____ (nome e cognome), presso la sede legale in ____, via ____, n. ___, consegnandone copia come segue: (indicare il modo della notificazione; se la notificazione avviene a mezzo posta si dirà: inviandone copia ivi a mezzo del servizio postale ai sensi di legge).
Luogo e data ___________

(1) Ai sensi dell’art. 16, co. 4, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito in L. 17 dicembre 2012, n. 221), “Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. ... La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria”. Sulle modalità ed efficacia delle disposizioni v. l’art. 16, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.
(2) Si ricorda che ai sensi dell'art. 13, co. 3 bis, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dall’art. 37, co. 6, lett. q, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in L. 15 luglio 2011, n. 111 modificato da ultimo dall’art. 45 bis della L. 11 agosto 2014, n. 114, di conversione del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 "Ove il difensore non indichi il proprio numero di fax ai sensi dell’art. 125, primo comma, del codice di procedura civile …., ovvero qualora la parte ometta di indicare il codice fiscale nell'atto introduttivo del giudizio …. il contributo unificato è aumentato della metà."
(3) Attenzione: qualora si tratti di controversie in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, si deve esperire preventivamente procedimento di mediazione ai sensi dell’art. 84 del D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. Decreto del Fare), convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98. L’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
fonte: www.altalex.com//Atto di citazione dinanzi al tribunale

venerdì 20 febbraio 2015

Addio alla famiglia, lei si dedica agli studi universitari: assegno mensile dall’ex marito

Vita nuova per la donna. Quest’ultima, chiusi i conti col passato – grazie anche alla ufficializzazione del divorzio dall’oramai ex marito –, scommette su sé stessa, sul proprio futuro, sulle proprie competenze, muovendo i primi passi da donna indipendente, cominciando un percorso universitario ad hoc, destinato a proiettarla anche verso il mondo del lavoro. Tutto ciò, però, richiederà, come naturale, del tempo, e un notevole impegno. Anche per questo, è corretto obbligare l’ex marito a versare alla donna un assegno mensile di 300 euro (Cassazione, ordinanza 2164/15).

Nodo gordiano, nella battaglia tra i due coniugi – prossimi al divorzio –, è il ‘capitolo’ relativo ai rapporti economici. Su questo fronte, difatti, i giudici di merito pongono «a carico del marito» l’obbligo di versare un «assegno mensile di 300 euro» alla moglie. E tale decisione provoca le proteste dell’uomo. Ecco spiegato l’approdo della vicenda in Cassazione, approdo, però, che si rivela negativo per l’uomo. Difatti, i giudici del ‘Palazzaccio’ respingono le obiezioni dell’ex marito, confermando l’«assegno mensile di 300 euro».

Decisivo il «notevole divario tra i redditi dei coniugi». E questo quadro non viene scalfito da percorso universitario della donna, perché tale esperienza non mette in discussione la sua «impossibilità di procurarsi mezzi adeguati». Su questo punto, in particolare, i giudici, rispondendo alle contestazioni mosse dall’uomo, ricordano che la donna «non è rimasta inerte». Ella, una volta disintegratosi il contesto familiare, «si è iscritta ad un corso universitario e si trova in Spagna per il progetto ‘Erasmus’», però, evidenziano i giudici, proprio «l’impegno negli studi universitari» – pur destinato a fornire alla donna «maggiori possibilità lavorative» – è «compatibile solo con occupazioni saltuarie e limitate, tali da non permetterle di mantenere il pregresso tenore di vita». Ciò conduce, visti i rapporti di forza attuali, a livello economico, tra i due ex coniugi, a confermare l’«assegno mensile di 300 euro» a favore della donna.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Addio alla famiglia, lei si dedica agli studi universitari: assegno mensile dall’ex marito

La rivoluzione del catasto, le case non saranno più divise in popolari o di lusso

Dal 1° luglio l’Agenzia delle entrate inizierà ad esaminare gli oltre 60 milioni di immobili. Le abitazioni rientreranno tutte in una lettera, la “O” di ordinarie, che terrà conto dei metri quadri anziché dei vani.

Addio vecchie A1, A2 o A3, le categorie che nei rogiti ancora classificano le nostre case come popolari, residenziali o di lusso. Le abitazioni degli italiani rientreranno tutte in una lettera, la “O” di ordinarie, che terrà conto dei metri quadri anziché dei vani e di tutte quelle caratteristiche, come piano, ascensore, balconi e quant’altro determina il loro valore commerciale. Nella lettera “S” di “speciali” rientreranno invece tutti gli immobili pubblici e quelli a uso commerciale. Continueranno ad essere esentasse i luoghi di culto. Il decreto legislativo destinato a rivoluzionare catasto e tassazione sulle case è sul tavolo del governo, che dovrebbe dare il via libera all’operazione tra una decina di giorni. Dal 1° luglio l’Agenzia delle entrate inizierà ad esaminare uno a uno gli oltre 60 milioni di immobili assegnando loro valori molto più simili a quelli di mercato, che entreranno poi in vigore nel 2019.

 Il decreto promette che alla fine sarà assicurata l’invarianza di gettito, ma se qualcuno pagherà meno altri sono a rischio salasso. “ Probabilmente per molte abitazioni di periferia o di nuova costruzione classificate oggi come di tipo economico (A3) o civile (A2) alla fine si pagherà meno”, spiega il segretario confederale Uil, Guglielmo Loy. “Per chi possiede case nei pregiati centri storici, ma classificate come popolari o ultrapopolari, o per i proprietari dei rustici trasformati in ville il salasso è invece assicurato”, prevede Loy. Che dietro l’angolo vede anche una “stangatina” sulla tassa rifiuti per via del calcolo fatto su metri quadri anziché vani.

 Secondo le prime stime della Uil Servizio politiche territoriali i 4,6 milioni di immobili classificati nelle più modeste categorie A4 e A5 potrebbero vedere addirittura quadruplicate le proprie rendite catastali. Per gli altri immobili il valore medio sarebbe di circa 168mila euro, il doppio di quello attuale. Non per questo raddoppieranno anche Imu e Tasi, visto che spetterà poi ai Comuni rimodulare le aliquote. Il decreto specifica anzi che la revisione “dovrà assicurare la sostanziale invarianza del gettito ”, ma non dice se la clausola di salvaguardia si applichi sui singoli comuni. Ergo il salasso sarebbe assicurato in quelli con bilanci dissestati.

 Qualche prima stima dei nuovi valori catastali l’ha fatta anche l’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti. I maggiori aumenti si verificherebbero a Salerno (più 178%), Bolzano (+176%), Parma (169%) e Napoli (+150%). Gli incrementi più contenuti invece ad Aosta (+30%) e Torino (più 51%), dove però in provincia, secondo la Uil, gli aumenti sarebbero intorno al 90%.

 Previsioni fatte sulle decine di pagine fitte di tabelle e algoritmi allegate al decreto che disegnano in questo modo il catasto che sarà. Prima di tutto si calcolerà il valore a metro quadro sulla base delle rilevazioni periodiche Omi, l’osservatorio del mercato immobiliare. In assenza di queste si terrà conto dei valori delle compravendite degli ultimi 3-4 anni o dei prezzi d’offerta delle principali agenzie immobiliari. A questo valore medio si applicheranno poi degli algoritmi che devono tener conto di cose come affaccio, piano, ascensore, balconi, doppi servizi e quant’altro determini il maggior valore dell’immobile. Sul dato finale si applicherà infine una riduzione del 30% ed ecco il nuovo valore catastale. Destinato a turbare il sonno a più di un proprietario.

fonte: www.lastampa.it//La Stampa - La rivoluzione del catasto, le case non saranno più divise in popolari o di lusso

giovedì 19 febbraio 2015

“Mago” si approfitta di donne deboli: deve leggere nel suo futuro che la pena sarà più alta

La Corte d’appello condannava un imputato per numerosi episodi di truffa aggravata e di violenza sessuale aggravata. Secondo le accuse, l’uomo, definitosi mago, truffava ed induceva numerose donne a compiere o subire atti sessuali, abusando delle loro condizioni di inferiorità psichica.

L’uomo ricorreva in Cassazione, contestando la sussistenza della circostanza aggravante dei motivi abietti o futili (art. 61, comma 1, n. 1 c.p.). La Suprema Corte (sentenza 5171/15) rileva l’attività di “mago” da parte del ricorrente era rivolta a donne che gli chiedevano aiuto a causa di gravi problemi personali ed in stato di prostrazione psicologica. Facendo leva su «ignoranza e superstizione», nonché su «condizioni di estrema debolezza psicologica», l’imputato aveva indotto le vittime a sottoporsi a riti propiziatori o volti ad allontanare il malocchio, così come a prestarsi a pratiche sessuali, momento indispensabile della procedura magica. Veniva instaurato così un rapporto sempre più stretto con le donne, che venivano indotte ad affidarsi a lui con la speranza di trovare un sollievo. Gli Ermellini concordano quindi con la Corte territoriale, che aveva riconosciuto la circostanza aggravante dei motivi abbietti, considerato che l’imputato si era profittato con notevole meschinità e turpitudine dello stato di disperazione altrui. Infatti, per motivo abietto si intende quello turpe, ignobile, che rivela nell’agente un grado tale di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello spregevole o vile, che provoca repulsione. Per questi motivi, il ricorso viene rigettato dalla Corte di Cassazione.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - “Mago” si approfitta di donne deboli: deve leggere nel suo futuro che la pena sarà più alta

Relazione sentimentale con la prostituta, l’amore salva dallo sfruttamento, ma non dal favoreggiamento

La Corte d’appello di Firenze assolve un imputato dal reato di sfruttamento della prostituzione, ma lo condanna per il delitto di favoreggiamento della prostituzione. L’uomo ricorre in Cassazione, affermando che, essendo stato escluso il reato di sfruttamento della prostituzione a causa del ritenuto legame affettivo che legava le parti, questo avrebbe dovuto escludere anche la concretizzazione del favoreggiamento, almeno sotto il legame psicologico.

La Cassazione (sentenza 4931/15) approva il ragionamento dei giudici di merito, che avevano escluso il reato di sfruttamento sulla base del riconosciuto rapporto sentimentale. Tuttavia, avevano anche rilevato che l’imputato fosse solito accompagnare la ragazza nei luoghi dove questa si prostituiva, rimanendo in contatto con lei ed informandosi dei clienti che la avvicinavano. Era intervenuto, inoltre, in occasione di un approccio fastidioso da parte di un cliente. Queste erano condotte ritenute correttamente come supporto alla donna a continuare nella propria attività.

Gli Ermellini ricordano che il reato di favoreggiamento della prostituzione si qualifica, da un lato, per la posizione di terzietà della figura del favoreggiatore nei confronti dei soggetti necessari, cioè prostituta e cliente, e, dall’altro, per l’attività di intermediazione tra offerta e domanda, volta a realizzare le condizioni, o ad assicurarne la permanenza, per la formazione del futuro accordo, che deve rientrare nella prospettiva dell’autore del reato. Ogni forma di attività agevolativa, idonea a procurare condizioni più facili per l’esercizio del meretricio costituisce un elemento che integra il reato in questione. Come avvenuto nel caso di specie. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Relazione sentimentale con la prostituta, l’amore salva dallo sfruttamento, ma non dal favoreggiamento

Chiamate e messaggi a raffica sul telefonino dell’ex moglie: condannato per stalking

Addio definitivo per i due coniugi. Ma lui non si arrende, e prova a chiedere una seconda opportunità alla moglie separata. Lo fa, però, nel modo peggiore, ricorrendo ossessivamente allo strumento telefonico, tempestando il cellulare della donna con telefonate e messaggi, dai contenuti poco rassicuranti non solo per lei ma anche per il suo attuale compagno. Acclarate le difficoltà emotive della donna – testimoniate da tensione, preoccupazione, nervosismo, paura –, è assolutamente corretta la condanna dell’uomo per il reato di stalking (Cassazione, sentenza 5316/15).

Dieci mesi da incubo, da gennaio a ottobre 2012, per una donna, a causa del pressing telefonico messo in atto dall’ex marito. Telefonate e messaggi a raffica sul suo cellulare, tutti caratterizzati da contenuti assai negativi nei confronti di lei e dell’attuale compagno. Evidente, per i giudici di merito, la gravità della condotta dell’uomo, qualificabile come «atti persecutori» in piena regola. Conseguenziale la condanna a «un anno e tre mesi di reclusione». Secondo l’uomo, però, è mancato un approfondimento – indispensabile – sulla reale e concreta «potenzialità offensiva», a suo dire inesistente, dei messaggi e delle telefonate. E per rendere più fragili le accuse nei suoi confronti, l’uomo aggiunge un altro particolare: «alcune telefonate minacciose risultano essere state effettuate con un telefono che era nella disponibilità» della donna.

Tutte le contestazioni mosse rispetto alla condanna emessa in Corte d’Appello, però, si rivelano assolutamente inutili. Ciò perché, evidenziano i Giudici della Cassazione, è di facile lettura la «vicenda», a partire da un dato chiarissimo: «i tabulati hanno dimostrato che dalle utenze sicuramente in uso esclusivo» dell’uomo «sono partite, in un ristretto arco di tempo, settantacinque chiamate sulle due utenze» della donna, oltre ad altre «quattordici chiamate su» una ulteriore «utenza» della donna.

Rilevante, però, è soprattutto l’«effetto destabilizzante» della condotta dell’uomo «sull’equilibrio psichico della donna», testimoniato dal «timore per l’incolumità propria e per le persone a lei legate», come, ad esempio, l’attuale compagno. Indiscutibile, poi, il (dis)valore dei comportamenti dell’uomo, che – peraltro, «già condannato per condotte analoghe» – «ha commesso, in un arco di tempo caratterizzato da particolare pressione psicologica, una serie di comportamenti proiettati a polemizzare sul rapporto cessato e a convincere la donna a una riapertura del dialogo in vista della ripresa della relazione». Senza dimenticare, va aggiunto, all’interno di questo «quadro di aggressività», il «comportamento intimidatorio» che l’uomo ha tenuto nei confronti «delle figlie e del compagno» della donna. Tutto ciò conduce a confermare, senza alcun tentennamento, la condanna dell’uomo a «un anno e tre mesi di detenzione» per lo stalking compiuto ai danni dell’ex moglie.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Chiamate e messaggi a raffica sul telefonino dell’ex moglie: condannato per stalking

Bancarotta fraudolenta anche per il fallito che salda tutti i debiti e chiude in positivo

Dalla condanna per bancarotta fraudolenta non si sfugge neppure se il fallimento si è chiuso con l’integrale soddisfacimento di tutti i creditori e con un saldo positivo. Il giudice penale non può sindacare sulla dichiarazione di fallimento, o meglio, sui suoi presupposti soggettivi (condizione di fallibilità dell’imprenditore) e oggettivi (stato d’insolvenza). Sulle sorti del reato può incidere solo la revoca della dichiarazione di fallimento stessa, pronunciabile in caso di riconosciuta insussistenza dello stato d’insolvenza al momento della dichiarazione medesima.

Questo ciò che emerge dalla sentenza di Cassazione depositata lo scorso 17 febbraio, n. 6904, con cui la Corte conferma la decisione di merito che nega al fallito la revisione della sentenza di condanna, emessa in primo grado, nonostante gli esiti della procedura fallimentare. Anche la chiusura del fallimento per sopravvenuta mancanza del passivo, afferma la Corte, “non esclude la legittimità e l’efficacia della sentenza dichiarativa di fallimento”, con la conseguenza che non vengono meno né lo stato d’insolvenza né il reato di bancarotta fraudolenta. E non solo. Ad escludere ogni possibilità di revisione sono anche ulteriori considerazioni fatte dagli Ermellini: l’iniziale condizione d’insolvenza non è “comparabile” né può essere “sovrapposta” dalla consistenza della massa alla chiusura del fallimento, “che ben può dipendere dalle azioni intraprese dalla curatela”, o dall’integrale soddisfacimento dei creditori insinuati e ammessi, nei quali “non necessariamente si esaurisce la platea dei debiti accumulati al momento della dichiarazione di fallimento”.

Come chiarito dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, richiamate in sentenza, quando un atto giuridico (la dichiarazione di fallimento) è assunto quale “dato” della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo o come condizione di punibilità) il giudice penale può sindacarlo e disapplicarlo solo se si tratta di un provvedimento amministrativo, non quando, come nel caso di specie, è un provvedimento giudiziale che, a prescindere dalla sua definitività, ha un valore erga omnes (S.U. sent. n. 19601/2008).

Fonte: Fiscopiù - www.fiscopiu.it/La Stampa - Bancarotta fraudolenta anche per il fallito che salda tutti i debiti e chiude in positivo

PCT: l'omesso deposito della copia cartacea di cortesia "costa" all'avvocato 5.000 euro

L'omesso deposito della c.d. "copia di cortesia" viene sanzionata con la condanna per responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c. E così, per gli studiosi del processo (telematico e non) ma anche per gli studenti universitari freschi dell'esame di procedura civile, il provvedimento emesso dal Tribunale di Milano (II sez.) in data 15/1/2015 rischia di annoverarsi tra i precedenti più sorprendenti della storia giuridica italiana.

La seconda sezione del Tribunale di Milano, chiamata a decidere sull'opposizione allo stato passivo di una procedura fallimentare, vi provvede in data 15/1/2015 con decreto/sentenza assunta, in composizione collegiale, al termine dell'ordinaria e solitamente rapida istruttoria.

Questo il contesto processuale che si svolge con modalità di svolgimento analoghe a quelle del procedimento ordinario (con gli obblighi discendenti dalle disposizioni di cui all'art. 16 bis D.L. 179/2012), seppur preordinato a spiegare i suoi effetti in una procedura concorsuale, regolata - ai fini della obbligatorietà del deposito telematico - dall'art. 16 bis 4.o comma D.L. 179/2012 ed integrata (per quel specificamente attiene alla sede giudiziaria interessata) dal decreto emesso in data 24/6/2011 dal DGSIA, ai sensi dell'art. 35 D.M. 44/2011.

Il giudizio (sul cui merito poco conosce chi scrive) si conclude con il rigetto dell'opposizione a cui viene assicurata esposizione ampia e motivata e si conclude con la comprensibile determinazione sulle spese di giudizio, che vengono poste a carico della parte soccombente seppur in misura non perfettamente aderente alle disposizioni di cui al D.M. 55/2014, che avrebbero forse dovuto condurre ad una liquidazione parametrata all'elevato valore della causa (euro 3.528.304,16).

Alla condanna di cui sopra si associa una ulteriore pronuncia non particolarmente frequente nell'ordinaria casistica processuale anche allorquando espressamente sollecitata da una delle parti costituite: la condanna alla responsabilità aggravata ai sensi dell'art. 96 del c.p.c.

Il Tribunale di Milano provvede su questo punto applicando d'ufficio la tipologia delineata al comma 3 della norma citata e facendo quindi legittimo esercizio della ondivagante “discrezionalità del giudicante” che – dice l'art. 96 - consente “In ogni caso...” la condanna della “...parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.” e che, nel caso che qui ci interessa, viene quantificata nel 2,4 % dell'importo liquidato a titolo di spese giudiziali.

La decisione è abnorme, illegittima e rivela immediatamente un suo effetto devastante anche sul piano extra giuridico, minando alla qualità ed all'autorevolezza del supporto giurisprudenziale di merito tradizionalmente apportato dal Tribunale milanese, soprattutto in un contesto (quello del PCT) che quella sede ha conosciuto sin dalla sua nascita, imponendosi quale punto di riferimento nazionale per la sua pratica applicazione.

Il caustico giudizio che precede viene suggerito ed asseverato dalla lettura della succinta parte motiva che finisce per risolversi nella irrogazione di una vera e propria punizione al comportamento processuale dell'opponente e ravvisato nell'omessa allegazione della copia c.d. “di cortesia” (cartacea) alla comparsa conclusionale (telematicamente depositata), ritenuta produttiva di un aggravio, per il Collegio decidente, nella fase di esame delle difese delle parti.

 L'assunto pare saltare a piè pari quel ponte, delineato all'indomani del 30 dicembre 2014, che ha esteso a gran parte dell'attività processuale, l'obbligo di deposito telematico già in parte vigente fin dal 30 giugno 2014. Esso – come detto - si colloca sorprendentemente in una sede giudiziaria notoriamente avanzata sul piano della pratica attuazione del sistema del P.C.T. e da tempo assurta a “faro” per quelle (non poche) ancora ferme alla fase sperimentale.

Da quella data, come si insegna ormai anche nei corsi universitari di procedura civile, il deposito è obbligatoriamente telematico, senza che vi sia alternativa previsione o deroga differenti da quelle predisposte dalla Legge a parare singole patologie (malfunzionamento dei servizi telematici e/o esigenze processuali individuate dal giudice) e che, in quanto tali, assumono carattere di eccezionalità.

Il sistema di deposito telematico si colloca, d'altra parte, nel più ampio genus della c.d. “dematerializzazione” altrettanto notoriamente preordinata alla graduale eliminazione della componente cartacea nel contesto delle amministrazioni pubbliche (a cui quello della giustizia sicuramente appartiene).

Le premesse che precedono concorrono quindi ad escludere che possa ancora procedersi ad un deposito di atti processuali con forme e modalità differenti da quelle richieste obbligatoriamente nel testo di Legge  ovvero acconsentite dai decreti dirigenziali.

Men che meno ipotizzabile l'eventualità che la deroga a quelle disposizioni possa essere introdotta nelle forme dei pur diffusi “protocolli d'intesa”, localmente concordati tra alcuni (neanche tutti) dei soggetti coinvolti nella fase esecutiva del c.d. PCT.

 Di diverso avviso il Tribunale meneghino che proprio a quel protocollo fa espresso riferimento, rappresentandone una portata generale e vincolante tale da assoggettare la sua inosservanza (comprensiva della previsione sul deposito delle c.d.  “copie di cortesia”) alla grave sanzione prevista dall'art. 96 comma 3 del codice di procedura vigente, irrogata nel caso qui commentato.

La considerazione, trasposta nella decisione qui commentata, apre un pericolosissimo varco nel panorama della giurisprudenza di merito sul PCT, suscettibile di essere condiviso in quel contesto che non ha mai nascosto la palese avversione allo sviluppo del sistema telematico e che si è adagiato acriticamente su precedenti decisioni senza curare di motivarne le ragioni.

 Sul piano processual civilistico la decisione sarebbe, a dire il vero, destinata ad infrangersi con l'irreperibilità di una disposizione che imponga – soprattutto nel contesto informatico – l'obbligo di integrazione del deposito telematico con quello cartaceo affidato alla “copia di cortesia” (nozione essa stessa ignota al codice salvo a forzare l'analogia con quelle prassi del vecchio processo civile che autorizzavano lo scambio diretto delle comparse tra i difensori costituiti).

 Si tratta di una considerazione che contribuisce a ridimensionare (fino ad escluderla completamente) il vincolo ascritto dal Tribunale milanese al “protocollo d'intesa”, equiparabile ad un apprezzabile “gentleman agreement” tra i soggetti coinvolti nell'espletamento delle attività processuali; destinato a spiegare la sua efficacia nell'ambito dei rapporti di reciproca collaborazione tra le varie parti del sistema giudiziario e comunque precluso a spiegare la sua efficacia erga omnes che finirebbe per essere estesa finanche al professionista forestiero che dovesse trovarsi occasionalmente ad operare presso la sede giudiziaria meneghina, disconoscendo la sua regolamentazione locale.

 Chè poi, anche a voler abbandonare per un attimo la preliminare e pregiudiziale censura sulla pretesa che precede, resterebbe tutto da valutare se l'applicazione dell'art. 96 3.o comma del c.p.c. sia consistita di corretta e legittima applicazione delle disposizioni del codice ovvero pronuncia abnorme al pari di quella parte della sentenza ad esso dedicato.

 Il decreto, per intanto, azzera quell'orientamento sostenuto da illuminati magistrati del medesimo Tribunale che, percepito il definitivo superamento della convivenza tra sistema analogico e cartaceo, hanno da tempo privilegiato ai profili formali del deposito dell'atto processuale, la sua idoneità - comunque effettuata - al raggiungimento dello scopo, ipotesi che, nel caso di specie, sembrerebbe essere stato perfettamente realizzato nel momento in cui ha consentito al giudice il completo esame del merito della causa, gravandolo semmai dal disagio derivante da propria e manifesta incapacità ad acquisire autonomamente una stampa della comparsa conclusionale depositata dall'opponente.

Essa trascura di esaminare l'excursus storico dell'art. 96 c.p.c., originariamente associato all'ormai abrogata (art. 46 comma 20 L. 69/2009) disposizione dell'art. 385 c.p.c., preordinata a perseguire l'abuso del processo ed oggi affidata (proprio ai sensi del 3.o comma) a piena, ma inevitabilmente ragionata, valutazione discrezionale del giudice su un comportamento processuale improntato a pregiudicare la durata fisiologica e ragionevole del procedimento (che poi risente invero di altri e ben differenti causali).

Lungi da chi scrive interferire quindi su quella discrezionalità ma inevitabile affidare una lettura pressocchè testuale della disposizione codicistica, nella parte in cui essa mira a rafforzare le ragioni della parte vincitrice, beneficiandola dell'ulteriore guiderdone liquidabile “...anche d'ufficio...” in suo esclusivo favore (...”pagamento a favore della controparte...”).

 A fronte di questi princìpi, a cui non concorrono neanche la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, il Tribunale di Milano oppone una sorta di personale punizione che finisce per colpire il difensore della parte opponente, reo di una lesa maestà attuata nei confronti di un Collegio che, a norma di protocollo, avrebbe dovuto obbligatoriamente disporre di materiale cartaceo idoneo a rendere la disamina delle tesi difensive quanto meno gravosa possibile.

Si tratta di una valutazione poco degna dell'elevata qualità del materiale giurisprudenziale solitamente prodotto dal capoluogo lombardo e che si risolve nella dichiarata rilevanza giuridica di una omissione dichiaratamente riconducibile alla “scortesia” del difensore (dacchè “cortese” viene definita la copia cartacea dell'atto non prodotto) meritevole di pubblica gogna.

In questo paradossale contesto ingenerato dalla sentenza menzionata, non possono mancare brevi considerazioni personali sui suoi pratici effetti, la cui revisione, in sede di gravame, appare ragionevolmente impensabile perchè rimessa alla scelta di un soggetto (la parte soccombente) già gravata dal considerevole impegno di spese processuali e dalla sfavorevole valutazione del merito della causa.

Neanche peregrina, anzi, l'eventualità che la motivazione esposta dal Tribunale legittimi le rimostranze del cliente nei confronti del proprio avvocato, dichiaratamente responsabile di un errore processuale e quindi chiamato a risponderne professionalmente, deontologicamente e, sia pur nei limiti della condanna sancita ai sensi dell'art. 96 c.p.c., anche economicamente.

 Le nefaste conseguenze vengono solo in qualche modo mitigate in extremis dal tempestivo ed opportuno intervento congiunto del Curatore fallimentare e del G.D. della procedura fallimentare di riferimento. Il primo si determina ad acquisire rapidamente il parere del comitato dei creditori sulla possibilità di proporre al G.D. la rinuncia al credito derivante dalla condanna ex art. 96 c.p.c. in luogo di una sollecita corresponsione del solo importo liquidato a titolo di spese di giudizio.

Il Giudice delegato (dott.ssa Irene Lupo), con provvedimento del 7 febbraio 2015 assevera quella determinazione motivando laconicamente (ma significativamente) le sue ragioni con un personale giudizio sull'opinabilità del fondamento della decisione (“...rilevato che detta pronuncia ex art. 96 III com cpc appare fondata su un principio opinabile ritenendo l'obbligo dell'avvocato quello che potrebbe configurarsi come atto di cortesia...”), così chiudendo il cerchio dell'infelice provvedimento giudiziale.

fonte: www.quotidianogiuridico.it//PCT: l'omesso deposito della copia cartacea di cortesia "costa" all'avvocato 5.000 euro - Il Quotidiano Giuridico

martedì 17 febbraio 2015

Sorpresa online: disponibile una propria foto privata. Condannato colui che ha condiviso l’immagine

Il diritto alla privacy deve rapportarsi agli strumenti offerti oggi dalla tecnologia. Esemplare la vicenda che ha visto ‘protagonista’, suo malgrado, una donna, che ha ritrovato una propria immagine privata sul web, attraverso un programma finalizzato alla condivisione di files. Responsabile della diffusione in rete è un uomo, che si è visto condannare, senza tentennamenti, per il reato di diffamazione (Cassazione, sentenza 6785/15).

Il caso

Linea di pensiero comune per i giudici di merito, i quali, difatti, ritengono sussistenti i presupposti per la condanna dell’uomo «per il reato di diffamazione, commesso mediante il caricamento in internet, in condivisione con altri utenti della rete, di un file contenente un’immagine attinente la vita privata» di una donna. Unica ‘vittoria’, per l’uomo, è la caduta dell’accusa relativa agli ipotetici «reati di interferenza illecita nella vita privata della persona offesa, aventi ad oggetto l’acquisizione e l’illecita divulgazione dell’immagine». Ciò, ovviamente, comporta una riduzione del «trattamento sanzionatorio». Ma chiedere di più, come fatto dall’uomo, è davvero assurdo. Per i giudici di Cassazione, difatti, la contestazione relativa all’applicazione della «aggravante» dell’«uso di un mezzo di pubblicità» è assolutamente legittima.

Nessuna critica è possibile, quindi, nei confronti delle valutazioni compiute dai giudici di merito, i quali, viene sottolineato ora, hanno tenuto adeguatamente conto delle «modalità di diffusione della foto mediante il caricamento sulla rete pubblica telematica». E queste «modalità» non sono affatto irrilevanti, soprattutto perché è acclarato che «la diffamazione tramite internet costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata» perché «commessa con un mezzo idoneo a determinare quella maggior diffusività dell’offesa, che giustifica un più severo trattamento sanzionatorio». Condanna confermata, quindi, in via definitiva, per l’uomo, così come stabilita dai giudici della Corte d’Appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Sorpresa online: disponibile una propria foto privata. Condannato colui che ha condiviso l’immagine

domenica 15 febbraio 2015

Concedere all’amico l’auto sequestrata, che si ha in custodia, non è reato (ma illecito amministrativo)

La condotta di chi circola abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro dall’autorità amministrativa non è più punibile come reato, ma comporta la sola sanzione amministrativa. È quanto risulta dalla sentenza della Cassazione 4197/15.

Il caso

La Corte d’appello confermava la sentenza con cui il Tribunale locale aveva condannato l’imputato alla pena di due mesi di reclusione per aver consentito ad un amico di far uso dell’auto di cui aveva la custodia, in quanto sottoposta a sequestro, ma di proprietà di un terzo soggetto. Contro la pronuncia viene proposto ricorso per cassazione.

Il principale motivo di ricorso ritiene che i giudici di merito abbiano trascurato la pronuncia delle Sezioni Unite n. 1963/10, la quale aveva affermato che chi circoli abusivamente con il veicolo di sua proprietà sottoposto a sequestro amministrativo, commette esclusivamente violazione amministrativa e non anche il reato di sottrazione di cose sottoposte a sequestro. Il motivo così articolato trova accoglimento da parte della Cassazione.

La sentenza citata nel ricorso e nuovamente richiamata dai giudici di legittimità, aveva difatti avuto modo di chiarire che la condotta di chi circoli abusivamente con il proprio veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, integri esclusivamente l’illecito amministrativo previsto dall’art. 213, comma 4, del Codice della Strada e non anche il delitto di sottrazione delle cose sottoposte a sequestro. La sentenza impugnata deve quindi essere annullata, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, senza rinvio.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Concedere all’amico l’auto sequestrata, che si ha in custodia, non è reato (ma illecito amministrativo)

È legge la stretta sul voto di scambio politico-mafioso

È legge la stretta sui benefici penitenziari ai condannati per scambio elettorale politico-mafioso. La Commissione Giustizia della Camera, all'unanimità in sede legislativa, ha infatti approvato in via definitiva la proposta di legge, della quale era relatore Davide Mattiello (Pd), che esclude dai benefici penitenziari il 416 ter. Le modifiche al 416 ter, il voto di scambio politico mafioso, erano già state approvate dal Senato. Quando la legge entrerà in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il condannato per voto di scambio non potrà più accedere al lavoro esterno, ai permessi premio e alle misure alternative (affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà). Il testo approvato, inoltre, attribuisce alla procura distrettuale antimafia le funzioni di pm nelle indagini preliminari sul 416 ter e nel processo di primo grado.

"Dopo aver potenziato e ampliato dieci mesi fa la punibilità del voto di scambio politico-mafioso - commenta Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia - ora abbiamo inasprito anche il trattamento processuale e penitenziario applicando il sistema del cosiddetto doppio binario già previsto dall'ordinamento per l'associazione mafiosa e altri reati connessi di particolare gravità e allarme sociale. Il messaggio - conclude Ferranti - deve essere chiaro: la lotta alla mafie in nome della legalità è per il Pd una assoluta priorità e uno degli obiettivi primari di questa legislatura".

"Un segnale importante su un tema che deve trovarci il più uniti possibile, in coerenza col richiamo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella", commenta il relatore del provvedimento, Davide Mattiello, il quale ha colto l'occasione per annunciare di aver depositato una interrogazione al ministro Orlando affinché avvii una ricognizione sullo stato di applicazione del 416 ter. "Il vice ministro Costa, presente in Commissione Giustizia, si è fatto carico della questione. Lo ringrazio di questo". "Il prossimo ritocco riguarderà l'innalzamento delle pene - conclude l'esponente del Pd - proporzionale all'annunciato aumento delle pene per il 416 bis".

"Oggi è stato segnato un colpo importante al malaffare - commenta il capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, Walter Verini - ed ora, dopo averla scritto e approvata, anche grazie all'impegno civico di "Libera" e di Don Ciotti, con la ricognizione sul suo stato di applicazione vogliamo essere sicuri che questa legge funzioni bene".

IL TESTO - PROPOSTA DI LEGGE APPROVATA DAL SENATO DELLA REPUBBLICA

il 12 novembre 2014 (v. stampato Senato n. 1344) d'iniziativa del senatore PALMA

Divieto di concessione dei benefìci ai condannati per il delitto di cui all'articolo 416-ter del codice penale

Trasmessa dal Presidente del Senato della Repubblica il 12 novembre 2014

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

(Divieto di concessione dei benefìci ai condannati per il delitto di cui all'articolo 416-ter del codice penale).

1. Al comma 1 dell'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, le parole: «delitto di cui all'articolo 416-bis del codice penale» sono sostituite dalle seguenti: «delitti di cui agli articoli 416-bis e 416-ter del codice penale».

Art. 2.

(Modifica al codice di procedura penale in materia di scambio elettorale politico-mafioso).

1. Al comma 3-bis dell'articolo 51 del codice di procedura penale, dopo le parole: «commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474, 600, 601, 602, 416-bis» è inserita la seguente: «, 416-ter».

fonte: www.ilsole24ore.com//È legge la stretta sul voto di scambio politico-mafioso

domenica 8 febbraio 2015

Come iniziare a gestire al meglio i risparmi

Gestire bene i propri risparmi può significare molte cose, dallo stare attenti a risparmiare per raggiungere i propri obiettivi di breve e medio-lungo termine, all’avere un piano di investimento intelligente.

Di seguito vi indicheremo come fare a impostare il proprio budget, iniziare a risparmiare e ottenere il meglio dai propri soldi.

Impostare un budget

Se si vuole avere il pieno controllo delle proprie finanze la prima cosa da fare è impostare un budget. Per Budget si intende una sorta di bilancio dove segnare il denaro in entrata e tutti i pagamenti che si faranno.

Assicurati di inserire anche le spese una tantum come il bollo della macchina o i regali di natale nel tuo budget.

Il modo più semplice e veloce per farlo è usare il nostro budget planner online. Questo vi permetterà di inserire tutte le vostre entrate e le vostre uscite. In seguito verranno analizzati i vostri dati e vi verrà dato uno spaccato di dove vanno a finire i vostri soldi, suddiviso per macrocategorie:

Casa

Spesa

Banca e assicurazioni

Famiglia e amici

Trasporti

Svago

Se le vostre entrate sono sufficienti a coprire le vostre uscite allora sarà il momento di iniziare a impostare degli obiettivi di risparmio.

Impostare un obiettivo di risparmio

Alcune persone sono difficilmente motivate a risparmiare, soprattutto in periodi dove le spese sono veramente tante. Ma questo non deve bloccarvi dal farlo. Impostare un obiettivo è un metodo semplice e utile per aiutarvi e aumentare la vostra motivazione. In questo modo, piuttosto che pensare ai soldi che dovrete tenere da parte ogni mese, potrete concentrarvi su quello che potrete fare una volta che avrete raggiunto il vostro obiettivo.

Il primo passo sarà mettere da parte quanto necessario per le emergenze (Solitamente 5 mesi di stipendio possono bastare) . Non preoccupatevi se non riuscirete a risparmiare questa cifra subito, ma mantenete il vostro obiettivo davanti a voi.

Una volta fatto potrete ad esempio:

andare in vacanza senza preoccupazione delle bollette che riceverete

comprarvi una macchina senza dovere fare un prestito

Impostare un piano di investimento

Una volta che i vostri risparmi saranno cresciuti a sufficienza sarà arrivato il momento di investirli. Investire i propri risparmi è una scelta intelligente perchè vi permetterà di garantire il loro valore nel tempo e non farlo scendere a causa dell’effetto inflazione.

Come per risparmiare anche per investire è importante avere un obiettivo. Per obiettivo in questo caso si intende avere un orizzonte temporale e quindi bisognerà decidere se si vuole investire questi soldi, a breve, medio o lungo termine al fine di individuare l’investimento più adatto alle proprie esigenze.

Scelto l’obiettivo si potrà procedere a importare il proprio piano di investimento. A questo punto però è meglio affidarsi all’aiuto di un consulente indipendente, che potrà indicarti l’investimento migliore per i tuoi  obiettivi.

fonte: www.blog.moneyfarm.com//Come iniziare a gestire al meglio i risparmi | MoneyFarm Blog

Etilometro, ricorsi più «facili»: l’avvocato può eccepire la nullità fino alla sentenza di primo grado

Come si fa a pretendere che un guidatore conosca tanto bene le regole dei processi da far valere tutti i suoi diritti mentre fa il test con l’etilometro? Il buonsenso dice che non si può. Ma in quella “culla del diritto” che è l’Italia non basta. Così, dopo anni di incertezze, è intervenuta addirittura la Cassazione a Sezioni unite. Che, con la sentenza n. 5396/15 depositata ieri, ha confermato: se l’interessato non viene avvertito che può farsi assistere da un legale, non solo l’accertamento si annulla, ma la nullità può essere fatta valere fino alla sentenza di primo grado.

Che gli agenti cadano su un cavillo come l’avvertimento all’interessato non è un fatto raro: spesso i test vengono effettuati in situazioni confuse (per esempio, dopo un incidente o quando il guidatore urla o cerca scuse). Così non lo si avvisa che può farsi assistere da un legale o si dimenticano di riportare l’avvertimento sui complicati atti che poi vengono inviati al magistrato penale. Infatti, va ricordato che in molti casi la guida in stato di ebbrezza non è una semplice violazione amministrativa (lo è solo se il tasso alcolemico è compreso tra 0,51 e 0,80 grammi/litro), ma un reato. Dunque, l’alcol test è il primo atto di quella che - a seconda del suo risultato - può diventare vera e propria indagine giudiziaria.

In quest’ambito, non ci sono dubbi sul fatto che l’avvertimento è obbligatorio: come confermato dalle Sezioni unite, si rientra nell’obbligo previsto dall’articolo 114 delle Disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale. Attenzione, comunque: anche se la sentenza 5396 non lo ricorda, per la giurisprudenza è pacifico anche che, dopo aver avvertito l’interessato, gli agenti possono procedere comunque al test, se l’avvocato del conducente non arriva in tempi brevi (altrimenti il risultato non riflette più la situazione esistente nel momento in cui l’interessato stava guidando).

Per inciso, l’intervento del legale sarebbe importante, per esempio, per fare in modo che il test con l’etilometro (tecnicamente discutibile, nonostante la sentenza 5396 lo definisca la «prova regina») venga seguito da una più affidabile analisi del sangue.

L’intervento delle Sezioni unite è stato necessario perché non era chiaro fino a quale momento si potesse eccepire la nullità dovuta al mancato avvertimento. È pacifico che questa è una nullità «a regime intermedio», alla quale cioè si applica l’articolo 182, comma 2, del Codice di procedura penale. E quest’ultima norma dispone che, quando la parte assiste all’atto, la nullità va eccepita, a pena di decadenza, prima del compimento dell’atto stesso (in questo caso, sarebbe il test) o, quando ciò non è possibile, immediatamente dopo. Altrimenti, il termine per eccepire si sposta a momenti successivi del procedimento (fissati dall’articolo 181). Il problema, sollevato dalla Quarta sezione penale, sta sostanzialmente nel capire se si rientra nel caso dell’atto a cui assiste la parte o in quello cui non assiste.

Le Sezioni unite rispondono che l’interpretazione non può essere quella letterale, perché per «parte» che «assiste» all’atto non si può intendere esclusivamente l’interessato. È infatti «da escludere che vi “assistesse” un soggetto (l’indagato o indagabile) che era in procinto di essere sottoposto a un accertamento indifferibile sulla propria persona», perché la facoltà di farsi assistere dal difensore «di per sé presuppone la (possibile) non conoscenza di tale facoltà». Occorre quindi attendere che “entri in scena” l’avvocato e si stabilisce che questi per eccepire la nullità ha tempo fino alla «deliberazione» della sentenza di primo grado. rafforzare il concetto, le Sezioni unite ricorrono a un paradosso: se l’interessato dichiarasse l’intenzione di chiamare il suo avvocato, da quel momento egli non potrebbe eccepire il mancato avvertimento, essendosi dimostrato conscio del proprio diritto.

Il principio viene affermato in generale, per cui secondo i supremi giudici vale in tutte le situazioni di questo tipo connesse a reati e quindi non solo per la guida in stato di ebbrezza.

Altro chiarimento fornito dalle Sezioni unite è che l’avvertimento non è dovuto quando si effettua il test col precursore, più semplice di quello con etilometro e che non comporta direttamente sanzioni per guida in stato di ebbrezza. Ma il reato è configurabile anche sulla base dei soli sintomi (come alito vinoso, difficoltà di movimento, eccessiva loquacità); in questo caso, se gli agenti usano il precursore a sostegno delle loro argomentazioni, sembra di capire che la Cassazione ritenga sia necessario avvisare del diritto di farsi assistere dal legale.

fonte: www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/Etilometro, ricorsi più «facili»: l’avvocato può eccepire la nullità fino alla sentenza di primo grado

sabato 7 febbraio 2015

Esercizio di una casa di prostituzione: il favoreggiamento vien da sé

Ai sensi della "legge Merlin" (75/1958) non è configurabile il concorso del reato di favoreggiamento dell’altrui prostituzione con quello di esercizio di una casa di prostituzione, in quanto il primo reato è assorbito nel secondo. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 44915/14.

Il caso

La Corte d’appello di Milano condanna un’imputata per i reati di esercizio di case di prostituzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. La donna ricorre in Cassazione, deducendo l’incompatibilità della contestazione del favoreggiamento della prostituzione con quella avente ad oggetto l’esercizio di una casa di prostituzione.

La Suprema Corte rileva che effettivamente, ai sensi della l. n. 75/1958, non è configurabile il concorso del reato di favoreggiamento dell’altrui prostituzione con quello di esercizio di una casa di prostituzione, in quanto il primo reato è assorbito nel secondo. Perciò, i giudici di legittimità annullano la pena inflitta per il reato di favoreggiamento della prostituzione, perché il fatto non sussiste.

La Cassazione esclude, al contrario l’attenuante del concorso del fatto doloso della persona offesa. Infatti, il concorso della volontà della prostituta costituisce elemento necessario per la realizzazione dei reati, per cui non può essere anche elemento circostanziale. In più, la prostituta non può essere considerata persona offesa dal reato, in quanto alla stessa deve essere attribuita la qualifica di soggetto danneggiato o passivo del reato. Infine, il fatto della prostituta costituisce soltanto occasione per la determinazione del reato, non fattore causale necessario nella realizzazione dell’evento.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Esercizio di una casa di prostituzione: il favoreggiamento vien da sé

Testo universitario fotocopiato: non si può togliere il pane di bocca all’autore

La riproduzione per uso personale di volumi o fascicoli è possibile, ma col limite del 15% dell’intero scritto e la corresponsione di un compenso forfettario agli aventi diritto. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione nella sentenza 44919/14.

Il caso

La Corte d’appello di Milano condanna un'imputata per aver illecitamente duplicato per uso non personale e per la vendita di testi universitari e dispense universitarie riprodotti abusivamente in fotocopia. La donna ricorre in Cassazione.

La Suprema Corte ripercorre il percorso logico seguito dai giudici di merito: la ricorrente gestiva un esercizio commerciale in cui erano stati ritrovati numerosi testi universitari, una dispensa ed un hard-disk pieno di testi universitari e dispense. La detenzione del materiale rinvenuto era, quindi, di sicuro destinata ad una remunerativa attività commerciale, per cui era inverosimile la versione della ricorrente, secondo cui gli studenti fotocopiavano i testi (e riproducevano quelli conservati nell’hard- disk) all’insaputa del proprietario.

La legge (633/1941) individua l’ambito di liceità della riproduzione per uso personale di volumi o fascicoli, con l’espresso limite quantitativo del 15% dell’intero scritto e la corresponsione di un compenso forfettario agli aventi diritto. La riproduzione destinata ad uso personale viene punita con la sospensione dell’attività di riproduzione ed una sanzione amministrativa. È prevista, poi, un’ipotesi aggravata, che punisce chi riproduce abusivamente opere letterarie tutelate dal diritto d’autore per uso non personale e per trarne profitto: condotta non occasionale e destinata all’utilizzo di terzi.

Nel caso, era stato accertato senza dubbio che le opere erano state riprodotte per uso non personale, come dimostrato dal numero di copie, che dimostrava il fine commerciale dell’abusiva riproduzione. Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Testo universitario fotocopiato: non si può togliere il pane di bocca all’autore

Rifiuta di sottoporsi alla prova del “palloncino”: niente lavoro di pubblica utilità

La circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale vale anche rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza; cosicché, la sussistenza di detta aggravante preclude l’accesso alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Così si è espressa la Cassazione nella sentenza 3297/15.

Il fatto

La Corte d’appello, riducendo la pena, conferma nel resto la sentenza del Giudice che aveva ritenuto l’imputato responsabile del reato (art. 186, comma 7, del CdS) di "rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza". I Giudici negava l’applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Contro la decisione l’imputato propone ricorso.

Il Collegio richiama l’orientamento della giurisprudenza in base al quale la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale è configurabile anche rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza. Ne consegue che la sussistenza di tale aggravante esclude l’accesso al lavoro di pubblica utilità.

Riporta sul punto quanto affermato dalla Cassazione, nella sentenza n. 43845/14, «la circostanza aggravante di aver provocato un incidente stradale, la cui sussistenza preclude all’imputato la possibilità di ottenere la sostituzione della pena inflitta con il lavoro di pubblica utilità, è configurabile anche rispetto al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza, in ragione del richiamo operato dall’art. 186, comma 7, al comma 2, lett. c) del medesimo articolo, il quale a sua volta è richiamato dal comma 2 bis, disciplinante l’aggravante in oggetto».

Il ricorrente chiede, inoltre, alla Corte di legittimità l’applicazione del nuovo istituto di cui all’art. 168 bis c.p.p.. Il Collegio, anche sul punto, richiama un principio già affermato in base al quale «nel giudizio di cassazione l’imputato non può chiedere la sospensione del procedimento con la messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p., né può altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al Giudice di merito, per l’incompatibilità del nuovo istituto con il sistema delle impugnazioni e per la mancanza di una specifica disciplina transitoria». Per tali ragioni, la S.C. ha dichiarato il ricorso inammissibile e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Rifiuta di sottoporsi alla prova del “palloncino”: niente lavoro di pubblica utilità

Inaugurato l’anno giudiziario dell’avvocatura penale

Inaugurato l’anno giudiziario dell’avvocatura penale | CAMEREPENALI TV

venerdì 6 febbraio 2015

Banca dati del DNA: è questione di mesi

«Credo che il secondo semestre del 2015 potrà vedere l’avvio concreto di operatività di Banca dati e Laboratorio, dotando così la polizia giudiziaria e la magistratura di un nuovo, efficace mezzo di conduzione delle indagini e lotta alla criminalità». Ad annunciare l’operatività del sistema in tempi brevi è il Ministro Orlando, con una relazione inviata ad un convegno tenutosi ieri a Roma.

Dopo alcuni anni dall’adesione dell’Italia al Trattato siglato a Prüm nel 2005, si assiste ad un’accelerazione nella realizzazione di una Banca dati per il DNA. Fase preliminare per garantire l’operatività della Banca dati è l’ultimazione del collaudo del Laboratorio centrale, ormai in via di definizione. «Dopo l’immissione degli allievi nel Laboratorio, per la formazione sul campo, e dopo il collaudo, si potrà procedere all’accreditamento del Laboratorio, necessario per passare alla fase di raccolta e conservazione dei profili genetici», chiarisce il Ministro. Nel frattempo i singoli istituti penitenziali sono già stati dotati delle cosiddette «stanze bianche» fornite dei kit necessari per il prelievo del DNA dei detenuti. Lo scopo dell’operazione è la «genotipizzazione, la raccolta del DNA, di circa 70.000 persone già condannate.

Una volta a regime, il sistema consentirà quanto viene già fatto in gran parte dei Pesi europei: confrontare le tracce biologiche sulla scena di un reato con i profili dei pregiudicati». Nell’ambio di queste novità, il Ministro Orlando ci tiene a sottolineare come sia giusto «richiamare i profili di garanzia dei cittadini e della loro libertà», in quanto «l’ambito di applicazione è circoscritto alla raccolta del DNA nei confronti di autori o presunti autori di reati, oltre che di un numero circoscritto di persone offese o potenzialmente offese da reati», quali ad esempio persone scomparse o persone decedute non identificabili. Grazie anche al fatto che le procedure di raccolta presentano forti profili di garanzia in relazione all’anonimato dei campioni raccolti, i quali saranno poi incrociati con i dati anagrafici della banca dati delle impronte, possiamo attenderci grandi passi avanti nella lotta alla criminalità, senza temere per la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Banca dati del DNA: è questione di mesi

martedì 3 febbraio 2015

Computer e passeggiate, ma l’uomo soffre di deficit mnemonico e caos topografico: legittimo l’‘accompagnamento’

Si rivela fragile la tesi secondo cui l’uomo è, comunque, in grado di affrontare in autonomia la vita. Certo, egli dichiara di utilizzare il computer a casa, e di recarsi dal giornalaio di fiducia e all’ufficio postale, ma i problemi a livello mnemonico e il disorientamento topografico rendono impossibile vivere senza l’assistenza di una persona (Cassazione, ordinanza 546/15)

Il caso

Vita assolutamente regolare, almeno in apparenza... Perché l’uomo, protagonista – malvolentieri – della vicenda, può svolgere in autonomia le comuni attività domestiche e muoversi tranquillamente, fuori dalla propria abitazione, per raggiungere i suoi punti di riferimento, come ufficio postale e giornalaio. Eppure, allo stesso tempo, egli, a seguito di un grave trauma commotivo, soffre di un grave deficit mnemonico e di un forte disorientamento topografico.

Così, di fronte alla constatazione di tale confusione spazio-temporale, le sembianze di una vita normale crollano miseramente. E ciò rende logico, e corretto, il riconoscimento, a favore dell’uomo, della indennità di accompagnamento. Sconfitta, sia in primo che in secondo grado, per l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, che, per i giudici di merito, deve provvedere al «pagamento dell’indennità di accompagnamento» riconosciuta a un uomo, alla luce delle sue precarie condizioni psico-fisiche. Più precisamente, è stata accertata nell’uomo una «condizione di deficit mnemonico e disorientamento topografico, oltre a rallentamento ideativo e della fluenza verbale».

Tutto ciò – conseguenza di un «grave trauma commotivo» –, peraltro, ha «impedito» all’uomo «di conservare il posto di lavoro». Secondo i legali dell’Istituto, le precarie condizioni fisiche dell’uomo sono state male interpretate. Egli stesso, difatti, ha dichiarato di «essere in grado di compiere tratti a piedi per recarsi all’ufficio postale e dal giornalaio» e di impiegare parte «del proprio tempo davanti al computer» che ha a casa. Di conseguenza si può parlare di «riduzione della capacità lavorativa o, anche, di impossibilità di lavorare», ma non certo di «necessità di assistenza continua» da parte di terze persone. Ma questa visione, fondata sulla sottile differenza tra «mera difficoltà» e «impossibilità» di «attendere agli atti quotidiani della vita», viene ritenuta non corretta dai giudici della Cassazione.

Consequenziale, quindi, è, col rigetto del ricorso, la conferma della «indennità di accompagnamento» a favore dell’uomo. Decisiva, nell’ottica adottata dai giudici, la considerazione che «la capacità di attendere in autonomia agli atti quotidiani della vita non deve parametrarsi sul numero degli elementari atti giornalieri, ma soprattutto sulle loro ricadute», come «l’incidenza sulla salute del malato» e «la salvaguardia della sua dignità come persona». Detto in maniera ancora più chiara, per la attribuzione della «indennità di accompagnamento», sanciscono i giudici, «la nozione di incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita» comprende anche quella persona che «pur potendo spostarsi nell’ambito domestico e fuori, non sia, per la natura della malattia, in grado di provvedere alla propria persona o ai bisogni della vita quotidiana, ossia non possa sopravvivere senza l’aiuto costante del prossimo».

Fonte: www.dirittoegiustizia.it/La Stampa - Computer e passeggiate, ma l’uomo soffre di deficit mnemonico e caos topografico: legittimo l’‘accompagnamento’

La valutazione negativa del periodo di prova giustifica la fine del rapporto di lavoro

La Corte d’appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stato rigettato il ricorso proposto da una donna per sentir accertare l’illegittimità del licenziamento. La lavoratrice era stata selezionata come appartenente ad una categoria protetta per un corso di tirocinio di sei mesi, dopo il quale era stata assunta con contratto a tempo indeterminato con patto di prova di sei mesi.

Durante lo svolgimento del periodo di prova, il datore di lavoro recedeva dal rapporto di lavoro per mancato superamento della stessa. La donna ha proposto ricorso in Cassazione. Secondo la Suprema Corte (sentenza 469/15) il Giudice di merito nel decidere si è correttamente attenuto ai principi giurisprudenziali in base ai quali «nell’ipotesi di patto di prova, legittimamente stipulato con uno dei soggetti protetti assunti in base alla l. n. 482/1968, il recesso dell’imprenditore durante il periodo di prova è sottratto alla disciplina limitativa del licenziamento individuale per quanto riguarda l’onere dell’adozione della forma scritta e non richiede pertanto una formale comunicazione delle ragioni del recesso».

Questo perché la manifestazione di volontà del datore di lavoro riferita all’esperimento in corso, è una valutazione negativa e comporta, senza necessità di ulteriori indicazioni, la definitiva e vincolante identificazione della ragione che giustifica l’esercizio del potere di recesso. La valutazione può essere contestata dal lavoratore con la deduzione dell’illegittimità dell’atto, che attribuisce al giudice il potere- dovere di accertare la nullità o meno del recesso, in esito alla prova che risulti determinata o influenzata dalle condizioni cui la l. n. 482/1968 collega l’obbligo di assunzione. La Cassazione, alla luce di tali principi, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - La valutazione negativa del periodo di prova giustifica la fine del rapporto di lavoro

lunedì 2 febbraio 2015

Il comodatario deve fare anche da giardiniere

Al comodatario compete l’obbligo di custodia ed il conseguente obbligo di avvisare il comodatario di ogni danno al bene di cui ha la custodia. Spettano al comodante, invece, le spese di straordinaria amministrazione e, se le stesse sono sostenute dal comodatario, questi ha diritto al relativo rimborso solo se necessarie ed urgenti. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 296/15.

Il caso

Con un contratto risalente al 1993 è concessa, in comodato d’uso gratuito, una casa con annesso terreno ed avente accesso dal mare. Il compimento di lavori abusivi da parte del comodatario aveva comportato l’avvio di un procedimento penale a carico di entrambe le parti del rapporto, concluso con l’assoluzione del comodante e la condanna del comodatario.

A distanza di diversi anni (nel 2006), il comodante aveva potuto accertare che, oltre ai lavori abusivi, il comodante aveva trascurato completamente la manutenzione ordinaria dell’immobile, circostanza che ha determinato uno stato di degrado tale da comportare un esborso economico notevole per la riparazione dalla situazione. A fronte di tali spese, il comodante ha ritenuto di agire presso il Tribunale per ottenere la condanna della controparte al rilascio dell’immobile oltre che al risarcimento del danno, previo accertamento della responsabilità.

Il giudice, accogliendo la domanda dell’attore e riscontrando un grave inadempimento del contratto di comodato, ha dichiarato la risoluzione del contratto medesimo, condannando al rilascio dell’immobile e al risarcimento del danno il resistente, il quale ha poi impugnato la sentenza innanzi alla Corte d’appello. Il secondo grado di giudizio ha riformato il provvedimento impugnato, rigettando le domande di risoluzione e di rilascio dell’immobile, oltre a ridurre l’importo dovuto a titolo di risarcimento danni.

Il comodante impugna la sentenza d’appello in Cassazione, affermando che il comodatario ha l’obbligo di custodia del bene oggetto del comodato, con l'onere di avvisare la controparte di qualunque danno intervenuto su di esso. Nel caso, il comodatario avrebbe omesso di informarlo circa cedimenti, infiltrazioni e carenze negli impianti verificatesi sull’immobile, avendo per di più impedito l’accesso all’immobile. La conseguenza di tale comportamento sarebbe dunque l’oggettiva responsabilità del comodatario per i danni occorsi, non essendo stato in grado di dimostrare il caso fortuito come causa degli stessi.

Ulteriore motivo di doglianza del ricorrente, riguarda l’erronea distinzione, compiuta dai giudici di merito, tra obblighi di manutenzione ordinaria e straordinaria. Affermando che i lavori di integrale risistemazione del terreno possono essere correttamente qualificati come manutenzione straordinaria e dunque essere imputabili al comodante, il ricorrente sottolinea come la necessità di tali interventi sia riconducibile a fatto e colpa della controparte, la quale ha appunto omesso di informarlo circa il deterioramento dell’immobile, evitando oltretutto di agire per impedire tali deterioramenti. Se difatti durante il lungo periodo (oltre dieci anni) in cui l’immobile era affidato alla custodia del comodatario, egli avesse provveduto all’ordinaria manutenzione del terreno, con lavori di potatura, pulizia e controllo di piante e arbusti presenti, non sarebbe stato poi necessario intervenire in via straordinaria per un integrale ripristino delle originarie condizioni dell’immobile.

La Cassazione accoglie le richieste del ricorrente, non condividendo l’affermazione dei giudici di secondo grado secondo i quali la cura della vegetazione spontanea deve considerarsi a carico del comodante, considerazione contrastante inoltre con il precedente riconoscimento di un obbligo di manutenzione ordinaria della cosa insito nell’obbligo di custodia gravante sul comodatario. La Suprema Corte ha modo dunque di riconfermare la riconducibilità delle spese di straordinaria amministrazione al comodante, al quale compete il relativo rimborso al comodatario nel solo caso in cui egli sia intervenuto sul bene con atti di straordinaria amministrazione necessari e urgenti.

Per quanto riguarda invece la posizione del comodante, è innegabile che sussista un obbligo di custodia della cosa, parametrato al criterio della diligenza del buon padre di famiglia. La manutenzione straordinaria si differenzia da quella ordinaria per l’entità dei lavori e della spesa necessaria per farvi fronte e nel caso concreto il comodatario non ha assolto all’obbligo di custodia e conservazione che gli competeva secondo la diligenza del buon padre di famiglia. Non sono condivise le considerazioni della Corte d’appello circa la natura di atti di amministrazione straordinaria dell’attività di cura della vegetazione spontanea, anche in considerazione della necessità di tali interventi ai fini dell’utilizzabilità dell’immobile. Per questi motivi, la Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte d’appello.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il comodatario deve fare anche da giardiniere

Violenza sessuale: costituisce ''induzione'' qualsiasi forma di sopraffazione della vittima

 L’induzione necessaria ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non si identifica solo con la persuasione subdola ma si...