venerdì 29 agosto 2014

Bulli scatenati e violenti, ma viene decisa la messa in prova. Davvero possibile la rieducazione?

Troppo semplicistica la decisione del Gip. Accolte, quindi, le obiezioni mosse dal pm, fondate anche sul ‘peso specifico’ dei fatti contestati. Lacuna da colmare è quella relativa alle reali possibilità di rieducazione e di reinserimento sociale dei due minorenni.

Il caso

‘Bulli’ di quartiere, senza dubbio: due ragazzi – non ancora maggiorenni – hanno preso di mira, spesso e volentieri, loro coetanei, rapinandoli picchiandoli. Ciò nonostante, il gip opta per la soluzione ‘buonista’: così dispone la sospensione del processo per “messa alla prova” dei minori. Tale soluzione è troppo frettolosa e semplicistica: manca, difatti, una valutazione sulle possibilità di rieducazione e reinserimento sociale dei due ‘bulli’ (Cassazione, sentenza 26044/14).

A contestare la decisione del gip è il pm presso il Tribunale per i minorenni: a suo dire, difatti, mancano le «condizioni» per «disporre la messa in prova dei minorenni, in quanto i fatti contestati, non essendo occasionali, rappresentavano adesione a modelli di vita devianti». Allo stesso tempo, comunque, il pm evidenzia la mancanza, da parte del gip, di una adeguata «giustificazione» per il «provvedimento» adottato, ed eccepisce che «il progetto elaborato dai Servizi minorili non prende in considerazione il tema delle modalità dirette a riparare le conseguenze del reato».

Le obiezioni del Pm vengono ritenute corrette dai giudici del ‘Palazzaccio’, i quali evidenziano come il nodo gordiano sia, in questo caso come in altri simili, la valutazione della «possibilità di rieducazione e di inserimento del soggetto nella vita sociale», alla luce, è ovvio, di «indicatori» precisi quali «il reato commesso» e «la personalità del reo». Ebbene, di fronte alle malefatte dei due ‘bulli’, il «provvedimento del gip», viene evidenziato, «omette di formulare un giudizio prognostico sulla possibilità di rieducazione e reinserimento sociale», senza tener conto dei «fatti contestati», della personalità dei minori e del loro «comportamento successivo».

Troppe, e troppo evidenti, le lacune nel ragionamento decisorio del Gip... lacune che andranno colmate – difatti, la vicenda viene riaffidata al Tribunale per i minorenni – prima di decidere sulla legittimità della messa in prova dei due ragazzi.

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L’autista prestanome è colpevole, a prescindere dal suo livello culturale

Anche un autista può far parte di un’associazione a delinquere formata in gran parte da soggetti professionalmente qualificati, quali commercialisti, avvocati, notai, non servendo alcun particolare livello tecnico-professionale per fornire il proprio consapevole contributo all’associazione medesima. Ma più che il livello culturale o di formazione professionale, per l’autista dei fatti di causa, sono state le mansioni svolte ad indurre la Cassazione a confermare la condanna al reato contestato e ai reati fine di concorso in bancarotta fraudolenta pluriaggravata e sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte.

Il condannato, infatti, partecipava in qualità di prestanome di una quindicina di società, alla struttura criminale capeggiata da due commercialisti, specializzatisi nel realizzare la stipula di atti di compravendita immobiliare tra società del medesimo gruppo economico al fine di accollare ad alcune di queste i rilevanti debiti tributari (mai pagati), per poi trasferirle fittiziamente all’estero onde sottrarle al fallimento. In tale contesto, l’autista, uomo di fiducia di uno dei commercialisti, oltre ad essere formale amministratore di alcune società, custodiva una pen drive contenente la contabilità occulta, e godeva della delega ad operare sui conti.

Tutti atti di gestione societaria, come già sostenuto dalla Corte d’Appello, sintomatici dell’effettiva consapevolezza delle condotte integranti i reati fine dell’associazione. Ma soprattutto, secondo gli Ermellini, per espletare tali mansioni, non occorreva la competenza di un commercialista, come sostenuto dal condannato, bastando la sua “dimostrazione di un’incondizionata affidabilità a vantaggio del soggetto che rivestiva un ruolo apicale, compito cui (il condannato) ha assolto in pieno e fino in fondo” . Con la sentenza del 27 agosto, n. 36182, il ricorso dell’autista viene respinto.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - L’autista prestanome è colpevole, a prescindere dal suo livello culturale

giovedì 28 agosto 2014

Limiti di velocità: è necessario ripetere il cartello impositivo del limite dopo ogni intersezione

Se il segnale indicante il limite di velocità non viene ripetuto dopo ogni intersezione stradale, dall’intersezione in poi vale il limite di velocità ordinario previsto per il tipo di strada.

Lo ha affermato la Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n. 11018, del 20 maggio 2014, con la quale ha accolto il ricorso presentato avverso la sentenza del Tribunale di Locri, che aveva ritenuto sussistente la violazione del limite di velocità di 50 km orari - inferiore a quello previsto dall’articolo 142 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, (Codice della Strada) per quel tipo di strada, di 90 km orari - imposto dal cartello stradale, posto circa 200 metri prima di uno svincolo in direzione del Comune di Portigliola e non ripetuto dopo lo svincolo stesso, violazione accertata attraverso la rilevazione di un autovelox, posizionato circa 150 metri dopo il suddetto svincolo. Nella fattispecie, l’autovelox ha rilevato che il ricorrente viaggiava ad una velocità di 60 km orari.

Motivi della decisione

Gli ermellini prendono le mosse dalla confutazione della tesi dell’amministrazione comunale, irrogatrice della sanzione amministrativa contestata dal ricorrente.

Secondo la tesi sostenuta dal Comune, ai sensi dell’articolo 119 del Regolamento D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada), ogniqualvolta si vogliano ripristinare i limiti generalizzati di velocità vigenti per quel tipo di strada, deve essere utilizzato il segnale di “fine limitazione di velocità”; qualora, invece, si voglia imporre un diverso limite di velocità, inferiore ai limiti suddetti, deve essere usato il segnale di “limite massimo di velocità” indicante il nuovo limite. Ha ritenuto, pertanto, il Tribunale di Locri che, non essendo presente sul tratto di strada oggetto di esame alcun segnale di “fine limitazione di velocità”, deve ritenersi vigente il limite di 50 km orari, imposto dal cartello presente prima dell’intersezione stradale.

Discostandosi dalla tesi argomentativa dell’amministrazione comunale, i giudici di ultima istanza hanno ritenuto che la fattispecie non fosse disciplinata dal richiamato articolo 119, bensì dall’articolo 104 del Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada, il quale, al comma 2, dispone che lungo il tratto stradale interessato da una prescrizione i segnali di divieto e di obbligo, nonché quelli di diritto di precedenza, devono essere ripetuti dopo ogni intersezione.

Corollario di tale norma è che, in caso di mancata ripetizione dopo un’intersezione del segnale impositivo del limite di velocità inferiore a quello previsto per legge, comporta la “riespansione” del limite di velocità maggiore previsto dalla legge, per il tratto di strada successivo all’intersezione stessa.

Alla luce del suddetto principio, la Suprema Corte ha ritenuto che, non essendo stato ripetuto il segnale impositivo del limite massimo di velocità di 50 km orari dopo lo svincolo in direzione del Comune di Portigliola, per il tratto di strada successivo a tale svincolo valesse il limite di velocità di 90 km orari, previsto dall’articolo 142 del Codice della Strada per quel tipo di strada. Pertanto, il ricorrente, viaggiando ad una velocità di 60 km orari (come da rilevazione dell’autovelox) non ha commesso alcuna violazione del limite di velocità.

In ottemperanza a quanto sopra rilevato, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e, per gli effetti, ha cassato la sentenza impugnata.

Massima

Corte di Cassazione, Sezione VI civile - 2, ordinanza 20 maggio 2014, n. 11018

Circolazione stradale – Limiti di velocità – Intersezione – Mancata ripetizione segnale di limite – Riespansione limiti previsti per tipo di strada

Poichè, ai sensi dell’art. 104 Reg. codice della strada, i segnali di divieto devono essere ripetuti dopo ogni intersezione, la limitazione di velocità imposta da un segnale precedente l’intersezione stessa viene meno dopo il superamento dell’incrocio, qualora non venga ribadita da nuovo apposito segnale; in mancanza di tale nuovo segnale, rivive la prescrizione generale dei limiti di velocità relativi al tipo di strada, salvo quanto disposto da segnali a validità zonale o da altre condizioni specifiche.

fonte: ilsole24ore.com//Limiti di velocità: è necessario ripetere il cartello impositivo del limite dopo ogni intersezione

Il parcheggio errato consapevolmente è violenza privata

La violenza privata si configura attraverso qualsiasi mezzo che sia idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione e azione una persona, costringendolo a fare, non fare o omettere qualcosa contro la propria volontà. Tra questi mezzi idonei può esserci anche l’autovettura, quando questa sia utilizzata per impedire ad altri di accedere al proprio fondo. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 25785/14.

Il caso

La Corte d’appello, confermando la decisione del giudice di primo grado, condannava per il delitto di violenza privata l’uomo che aveva parcheggiato il proprio fuoristrada su una stradella per impedire ad un altro la possibilità di accedere al suo fondo. Il soccombente ricorreva in Cassazione lamentando il difetto dell’elemento psicologico, poiché lo stesso affermava che si era trattato di un parcheggio errato, non integrante la fattispecie del reato di violenza privata, in quanto non vi era stato alcun rifiuto allo spostamento del proprio mezzo.

La difesa, infatti, rilevava che i Giudici territoriali non avevano considerato che la vettura dell’imputato si presentava aperta e con le chiavi inserite nel cruscotto, per cui chiunque l’avrebbe potuta spostare, e che quindi non si trattava di impedimento, ma semplicemente di un parcheggio momentaneo.

La Suprema Corte ricorda il proprio orientamento, secondo il quale, al fine della configurabilità del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), il requisito della violenza si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente delle libertà di determinazione e di azione dell’offeso, il quale sia costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà. Per cui integra il reato in esame il parcheggio di un’autovettura eseguito intenzionalmente in modo tale da impedire a un’altra automobile di spostarsi per accedere alla pubblica via e accompagnato dal rifiuto reiterato alla richiesta della persona offesa di liberare l’accesso (Cass. n. 16571/2006).

Nel caso di specie, l’imputato, richiamato dai colpi di clacson, si era prima affacciato dalla propria abitazione, ma aveva fatto subito rientro in casa e soltanto il sopraggiungere del figlio aveva posto fine alla condotta antigiuridica volontariamente posta in essere dall’imputato. L’inserimento delle chiavi nel quadro di accensione della vettura non rileva quale elemento di favore, essendo comunque onere del proprietario dell’autovettura rimuovere la situazione antigiuridica consapevolmente creata. Per i suddetti motivi, la Cassazione rigetta il ricorso.

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mercoledì 27 agosto 2014

Telefonata nel cuore della notte: la goliardata è fatale

Nella fattispecie di minaccia, trattandosi di un reato di pericolo, non è richiesta la concreta intimidazione della parte offesa, bensì la comprovata idoneità della condotta ad intimidire una persona normale. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 25772/14.

Il caso

Il tribunale dei minorenni di Caltanissetta dichiarava il non luogo a procedere, per concessione del perdono giudiziale, nei confronti di un ragazzo, accusato del reato di minaccia, effettuata mediante una telefonata in orario notturno. I giudici ritenevano non sussistenti i presupposti per la declaratoria di irrilevanza del fatto, ritenendolo non del tutto occasionale ed episodico.

La difesa ricorreva in Cassazione, deducendo che le modalità del fatto avrebbero consentito una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non costituiva reato. A suo giudizio, si trattava semplicemente di uno scherzo di cattivo gusto, in cui, con la frase «morirai entro sette giorni», si emulavano semplicemente dei film horror, essendo invece assurda la frase sull’esistenza di una setta satanica in città. Idoneità della condotta. Tuttavia, la Corte di Cassazione ribatteva che, trattandosi di un reato di pericolo, non è richiesta la concreta intimidazione della parte offesa, bensì la comprovata idoneità della condotta ad intimidire una persona normale. Nel caso di specie, non essendo richiesta l’intimidazione effettiva della persona offesa, doveva, quindi, rilevarsi che il male minacciato fosse tale da poter incidere, almeno potenzialmente, nella sfera di libertà psichica della vittima. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

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Schiamazzi notturni: bisogna valutare la potenziale idoneità a recare disturbo

Il reato di disturbo del riposo delle persone si configura quando la condotta antigiuridica sia idonea ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone, ossia quando sia potenzialmente capace di disturbare un numero indefinito di soggetti. Non è difatti necessario accertare l’effettivo disturbo. E’ stato così chiarito dalla Cassazione nella sentenza 25732/14.

Il caso

Il giudice di primo grado condannava due ragazzi, ritenendoli colpevoli del reato di cui all’art. 659 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), per aver con schiamazzi ed urla, nella notte, disturbato il riposo delle persone. Inoltre condannava uno dei due anche al reato di cui all’art. 544 c.p.(maltrattamento di animali), per aver colpito un cane randagio con delle pietre.

Il giudice di secondo grado assolveva l’imputato per il reato di maltrattamento di animali perché il fatto non sussiste, ritenendo probabile che il lancio delle pietre fosse stato determinato dal tentativo di difendersi dall’aggressione del cane randagio. Gli imputati ricorrevano per cassazione, lamentando il vizio di motivazione rispetto al reato di disturbo della quiete pubblica, poiché tale reato richiede l’accertamento in concreto dell’avvenuto disturbo.

La condotta sanzionabile, infatti, deve incidere sulla tranquillità pubblica. Inoltre, lamentavano la manifesta illogicità della motivazione, poiché era stato escluso il reato di maltrattamento di animali, avendo ritenuto che gli imputati avessero agito per difendersi dall’aggressione del cane, senza considerare che ciò non poteva avvenire in silenzio.

Il disturbo della quiete pubblica deve essere valutato in concreto. La Cassazione ritiene fondati i motivi, in particolare ricorda che, circa l’elemento oggettivo del reato ex art. 659 c.p., al fine dell’integrazione del suddetto reato, è sufficiente l’idoneità della condotta ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato, non occorrendo l’effettivo disturbo alle stesse. Difatti, i rumori devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di soggetti, anche se poi concretamente è solo una a lamentarsene.

Nella specie, quindi, la sentenza impugnata non ha adeguatamente motivato né l’accertamento in concreto dell’avvenuto disturbo né la sua idoneità ad arrecare disturbo ad una massa di persone.

La stessa Corte ricorda, poi, che in riferimento all’elemento soggettivo del reato in esame, la motivazione del Giudice di appello non solo è carente, ma anche contraddittoria. Questa presenta illogicità manifesta, poiché ha omesso di spiegare le ragioni per le quali il comportamento aggressivo del grosso cane randagio ed il tentativo di difendersi dalla sua aggressione giustificavano il lancio di pietre all’animale, mentre non potevano giustificare le urla nei confronti dello stesso nel tentativo di impaurirlo ed allontanarlo. La Corte annulla perciò la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello.

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martedì 26 agosto 2014

I bisogni del figlio minore prevalgono sull’accordo divorzile

In tema di divorzio, anche quando sia stata prevista, sulla base di un accordo della parti, la corresponsione dell’assegno in unica soluzione, tale regime può essere modificato, quando intervengano bisogni economici riferibili al figlio minore. In tal caso potrà essere richiesta l’erogazione di un contributo mensile ulteriore. Lo afferma la Cassazione nell'ordinanza 13424/14.

Il caso

Il Tribunale di Bari accoglieva l’istanza di corresponsione di un assegno mensile di 200 euro in favore della figlia minore. Avverso tale decisione proponeva reclamo il padre, sostenendo l’illegittima imposizione dell’assegno sulla base della previsione contenuta nella sentenza di divorzio; che aveva disposto l’erogazione della somma pari a 100.000 in favore della ex moglie, per l’acquisto di una abitazione, e altri 50.000 euro da destinare all’esigenze di vita della donna stessa e della figlia.

La Corte di appello rigettava il reclamo, rilevando che l’acquisto dell’abitazione aveva comportato un spesa di 145.000 euro, sicché il residuo di 5.000 euro era da ritenersi una disponibilità insufficiente alle esigenze di mantenimento della figlia minore. Il Giudice territoriale riteneva, inoltre, equamente commisurata la somma di 200 euro mensili, tenuto conto del reddito dello stesso padre. Ricorreva quindi in Cassazione l’uomo deducendo l’omessa motivazione e la violazione di norme di legge.

Nel caso di specie, la Corte Suprema decide di non adeguarsi alla propria giurisprudenza, mutando orientamento. Con la sentenza n. 126/2001 la Corte aveva escluso la sopravvivenza, in capo al coniuge beneficiario, di qualsiasi ulteriore diritti a contenuto patrimoniale o meno, quando fosse stata prevista con sentenza la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione, su accordo delle parti. La Corte precisava che nessuna ulteriore prestazione poteva essere richiesta, neppure per il peggioramento delle condizioni economiche dell’assegnatario o per la sopravvenienza di giustificati motivi.

La Cassazione disattende tale orientamento ricordando che il figlio minore non partecipa all’accordo e il suo interesse patrimoniale deve tenersi distinto rispetto a quello dei genitori. È necessario perciò riconoscere a favore del figlio minore un contributo al suo mantenimento, da parte di entrambi i genitori, idoneo al soddisfacimento delle proprie esigenze. Sicché, la corresponsione dell’assegno divorzile in unica soluzione non pregiudica la possibilità di richiedere, ex art. 9 l. n. 898/1970, la modifica delle condizioni economiche del divorzio per fatti intervenuti, come nel caso in esame, successivamente alla sentenza di divorzio. Per i suddetti motivi, la Corte rigetta il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - I bisogni del figlio minore prevalgono sull’accordo divorzile

Legittima la cartella senza previo avviso, responsabile del procedimento né sottoscrizione

La sentenza di Cassazione del 17 luglio 2014, n. 16321, rappresenta un utile promemoria delle tesi difensive da evitare per riuscire ad aggredire vittoriosamente una cartella di pagamento relativa ad iscrizione a ruolo a seguito di liquidazione ex art. 36 bis, D.P.R. n. 600/73, di somme dovute per IRPEF. Nessuna delle nove censure sollevate dal contribuente ha, infatti, trovato l’accoglimento da parte della Corte.

Tra quelle più “gettonate”, la mancanza di un autonomo atto di contestazione delle sanzioni e del previo avviso bonario dell’esito della liquidazione. Entrambi atti che l’Amministrazione, secondo CTR e Cassazione, non è tenuta a emettere in caso d’iscrizione a ruolo a seguito di liquidazione automatica (salvo il caso di errori nella dichiarazione), ove, in merito alle sanzioni, l’art. 17, D.Lgs. 472/97 esclude la previa contestazione nei casi di omesso o ritardato versamento del tributo.

Né tanto meno si può pretendere la sottoscrizione del ruolo da parte del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, sede Centrale, perché, come avvenuto nel caso di specie, basta quella dell’ufficio locale (art. 6 Statuto dell’Agenzia e art. 5 Regolamento di attuazione). Altrettanto vana la pretesa d’annullamento della cartella per l’omessa indicazione del responsabile del procedimento, essendo la stessa stata notificata prima del 1° giugno 2008, data dalla cui (sola) ricorrenza è applicabile la nullità agli atti che difettano di tale indicazione (S.U., sent. 11722/2010).

E ancora, non inficia la legittimità dell’atto l’omessa sottoscrizione: la cartella ex art. 25, D.P.R. n. 602/73, dev’essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, essendo sufficiente la sua intestazione per verificarne provenienze e indicazione, oltre che della somma da pagare, della causale tramite apposito numero di codice. Il ricorso è stato rigettato.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - Legittima la cartella senza previo avviso, responsabile del procedimento né sottoscrizione

La semplice ospitalità non comporta l'esercizio di attività alberghiere

La S.p.A. che ospitava i propri dipendenti presso il residence di proprietà non è riuscita a dimostrare che le prestazioni erogate fossero riconducibili alla categoria agevolata delle attività alberghiere, che consente l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta del 10% sulle fatture. Per i giudici d’Appello, l’avviso in rettifica, che impone l’aliquota ordinaria, è legittimo, stante la mancata sussistenza degli elementi distintivi dell’attività alberghiera.

In particolare, l’Agenzia, che riqualificava i servizi come distinti rapporti di locazione, contestava alla società la mancanza della “vocazione turistica” della struttura ricettiva, della licenza di esercizio ex art. 86, T.U.L.P.S. e l’omessa iscrizione nell’apposito registro istituito dalla Legge n. 426/71.

In Cassazione, la società, lamentava senza successo che tali contestazioni dell’Agenzia erano state sollevate solo tra i motivi di gravame, senza essere richiamate nella motivazione dell’avviso di rettifica. Secondo gli Ermellini, la ragione in diritto che fonda la pretesa tributaria è, però, un’altra: le prestazioni non venivano erogate al pubblico “ma a destinatari predeterminati e circoscritti a determinate categorie legittimate in via esclusiva alla fruizione dei servizi”.

In altre parole, la pretesa si fonda nella contestazione di fatti costitutivi del diritto all’agevolazione fatto valere dal contribuente, risolvendosi in un’eccezione di merito volta ad allegare un fatto (destinazione delle prestazioni a dipendenti, soci o tesserati della società). E neppure l’omesso esame da parte della CTR delle (altre) fatture emesse e dei contratti stipulati con soggetti terzi rispetto alla società può inficiare la sentenza di merito: tale circostanza per la Corte è inidonea a comprovare che il servizio della struttura ricettiva “è effettivamente offerto sul mercato in modo indifferenziato al pubblico”.

Con la sentenza del 17 luglio 2014, n. 16335, la Corte rigetta il ricorso della società e conferma la sentenza di merito.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - La semplice ospitalità non comporta l'esercizio di attività alberghiere

Custodia cautelare: l’avvocato non può essere avvisato con una telefonata

L’avviso al difensore dell’indagato di deposito nella cancelleria del giudice del provvedimento di applicazione di una misura cautelare personale, ex art. 293, comma 3, c.p.p., deve essere necessariamente notificato tramite l’ufficiale giudiziario, in quanto si tratta di un atto non urgente, essendo destinato soltanto a far decorrere il termine per proporre l’impugnazione de libertate. Perciò, in questa ipotesi, non è consentito l’impiego del telefono. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 25280/14.

Il caso

Il tribunale di Palermo dichiarava inammissibile l’istanza di riesame contro il provvedimento, emesso dal gip, di applicazione della custodia cautelare in carcere. I giudici d’appello ritenevano tardiva l’istanza, perché presentata oltre i 10 giorni previsti dall’art. 309, comma 3, c.p.p., decorrenti dal giorno della notifica al difensore, per mezzo del telefono, dell’avviso di deposito del provvedimento.

L’imputato ricorreva in Cassazione, affermando che tale avviso non poteva essere notificato al difensore con il telefono. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che la notificazione di un avvio o di una convocazione, oltre che tramite l’ufficiale giudiziario o altri mezzi tecnici idonei (come il telefax), può essere disposta anche a mezzo del telefono o del telegrafo, a condizione che si tratti di atto urgente (come l’avviso di fissazione dell’interrogatorio di garanzia o quello di fissazione dell’udienza per la trattazione del riesame) e che il destinatario sia una persona diversa dall’indagato.

Al contrario, l’avviso al difensore dell’indagato di deposito nella cancelleria del giudice del provvedimento di applicazione di una misura cautelare personale, ex art. 293, comma 3, c.p.p., deve essere necessariamente notificato tramite l’ufficiale giudiziario, in quanto si tratta di un atto non urgente, essendo destinato soltanto a far decorrere il termine per proporre l’impugnazione de libertate. Perciò, in questa ipotesi, non è consentito l’impiego del telefono. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Custodia cautelare: l’avvocato non può essere avvisato con una telefonata

lunedì 25 agosto 2014

Le videoriprese, non comunicative, non sono intercettazioni ambientali

In tema di intercettazioni, possono essere acquisite come prove documentali atipiche, le videoriprese non comunicative inerenti ad attività svolte in dimora privata, sempre che sia stata acconsentita l’installazione delle videocamere, e la conseguente acquisizione del materiale probatorio, da parte del proprietario dell’appartamento, ossia del legittimo titolare del diritto, disponibile, alla riservatezza del domicilio. In questi casi, il titolare di tale diritto, rinuncia alla tutela dello stesso in modo consapevole, e perciò non dovrà ritenersi necessaria la preventiva autorizzazione del giudice. E’ stato così deciso dalla Cassazione nella sentenza 25177/14.

Il caso

Il giudice di primo grado assolveva gli imputati per non aver commesso il fatto, poiché le imputazioni, produzione, detenzione e traffico di sostanze stupefacenti, non avevano trovato riscontro, dovendosi ritenere inutilizzabili le risultanze di videoriprese effettuate all’interno di un appartamento.

Nonostante il proprietario del suddetto appartamento, imputato in un procedimento connesso, avesse acconsentito all’installazione delle microtelecamere, su autorizzazione del Procuratore, il giudice di merito riteneva inutilizzabili le riprese perché eseguite entro una dimora privata, comportandone l’illiceità come mezzo di prova. Il giudice di secondo grado riformava però la decisione, condannando gli imputati. I soccombenti ricorrevano quindi in Cassazione, lamentando l’inutilizzabilità delle videoriprese, essendo venuto a mancare il consenso imputati, domiciliato anch’essi presso il suddetto appartamento.

La Corte d’appello aveva rilevato come la tutela dei diritti fondamentali possa venir meno per esigenze processuali probatorie, per cui anche le videoriprese di tipo non comunicativo, in privata dimora, dovrebbero ritenersi valide e lecite, se autorizzate dal giudice con la procedura prevista per le intercettazione, ex art. 266 c.p.p.. Tuttavia, nel caso in esame, il proprietario dell’appartamento, titolare del diritto alla riservatezza del domicilio, aveva autorizzato le riprese, perciò, a fortiori, secondo il Giudice territoriale, non era nemmeno necessaria l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria. Osservava, poi, il giudice che,non essendo stati captati rapporti comunicativi tra i soggetti all’interno dell’appartamento, le videoriprese non potevano essere equiparate alle intercettazioni ambientali, ritenendo ad esse non applicabile la medesima disciplina. Si trattava invece di prova documentale atipica utilizzabile ai sensi degli artt. 191 e 234 c.p.p..

Il giudice di secondo grado, in sintesi, riteneva tutelato il diritto alla riservatezza del domicilio, poiché in quanto diritto disponibile, il legittimo titolare può rinunciarvi, come era avvenuto nel caso di specie, così da non rendere necessaria nessuna preventiva autorizzazione da parte del giudice. La Suprema Corte conferma la ricostruzione del giudice territoriale.

La giurisprudenza di legittimità difatti ha operato, nel corso della propria attività, una netta distinzione tra le videoriprese di atti comunicativi, riconducibili alla disciplina delle intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi che, se effettua in ambienti pubblici, non possono equipararsi alle intercettazioni ambientali. Ma ha poi specificato che, qualora le riprese di atti non comunicativi avvengano in luoghi privati, riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela ex artt. 14 Cost. e 8 CEDU, la tutela del domiciliato ne impedisce la acquisizione e l’utilizzazione. Il Collegio, però, ricorda la possibilità di rinunciare a tale diritto fondamentale, rinuncia che deve manifestarsi attraverso il consenso, da parte del proprietario, all’acquisizione e utilizzazione delle riprese.

L’autorizzazione del soggetto, quindi, fa venir meno ogni profilo di illiceità della prova. La Corte inoltre specifica che, benché gli imputati dichiarassero di dimorare e di avere libero accesso all’abitazione, e che quindi anche loro dovevano ritenersi titolari dello jus excludendi che consegue al diritto di domicilio, era sufficiente l’autorizzazione conferita del legittimo proprietario dell’appartamento e non anche il loro consenso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it //La Stampa - Le videoriprese, non comunicative, non sono intercettazioni ambientali

Cassazione: pedone “investe” ciclista, deve risarcirlo

Costa caro al pedone «l’invasione» della pista ciclabile anche se compiuta inavvertitamente. La Cassazione ha infatti confermato la condanna di una signora fiorentina che, senza guardare, era scesa da un marciapiede e si era trovata nel bel mezzo di un tratto di strada riservata ai ciclisti creando così «ostacolo» alla loro circolazione tanto che una ciclista, per schivarla, era stata costretta ad una brutta caduta nella quale si era fatta male a un occhio.

 Denunciata per «condotta colposa consistita nella violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale», Cristina M. (53 anni) era stata inizialmente assolta «per non aver commesso il fatto» dal giudice di pace di Firenze il 16 settembre del 2010. In seguito, su appello di Maria C. - la ciclista finita a terra - il Tribunale di Firenze il 13 luglio 2012 aveva condannato Cristina M. al risarcimento dei danni provocati alla vittima con una provvisionale immediatamente esecutiva pari a ottomila euro. Tra pedone e ciclista non c’era stato «nessun contatto» e la signora a piedi non aveva riportato alcuna lesione diversamente dalla donna alla guida della bici che, per evitarla, aveva perso il controllo del suo mezzo. L’incidente era avvenuto il sette giugno 2005.

 Senza successo Cristina M. ha contestato la condanna innanzi alla Quarta sezione penale della Suprema Corte che, con la sentenza 35957 depositata oggi e relativa all’udienza svoltasi lo scorso cinque giugno, ha confermato il verdetto di responsabilità dando il via libera al proseguimento della causa civile per la quantificazione definitiva dei danni da risarcire alla ciclista oltre agli ottomila euro già conteggiati.

L’imputata è stata anche condannata a pagare duemila euro di spese processuali in favore di Maria C. per l’onorario dell’avvocato della parte civile.

(Fonte: Ansa)  //La Stampa - Cassazione: pedone “investe” ciclista, deve risarcirlo

giovedì 21 agosto 2014

"L'Agenzia informa": cinque nuove guide disponibili online

Dopo “Fisco e casa: acquisto e vendita” e “Fisco e casa: le locazioni", la nuova sezione del sito web delle Entrate “L’Agenzia informa”, creata per facilitare l'accesso dei contribuenti alle informazioni fiscali, si arricchisce di cinque nuove guide, che illustrano i profili fiscali di temi di maggior interesse comune per i cittadini:

1) controlli sulle dichiarazioni e accertamenti esecutivi: la guida si occupa delle principali attività di liquidazione e controllo svolte dagli uffici delle Entrate, illustrando le differenze tra controlli automatici, formali e sostanziali, e dispensando consigli pratici ai contribuenti su come comportarsi a seconda del tipo di controllo e sulle modalità per rateizzare le somme dovute;

2) donazioni e successioni: ancora una guida dedicata alla fiscalità sulla casa, in cui questa volta vengono indicati tutti gli adempimenti per dichiarare, calcolare e versare le imposte relative agli immobili ricevuti in seguito a una successione o una donazione, con focus sulle agevolazioni previste per la prima casa e sui limiti al di sotto dei quali l’imposta non è dovuta;

3) riparare a errori e dimenticanze: una guida dedicata a chi vuole regolarizzare la propria posizione con il Fisco, non solo attraverso il ravvedimento operoso ma anche con lo strumento della remissione in bonis, che permette di rimediare a dimenticanze relative a comunicazioni o ad adempimenti formali, evitando di perdere la possibilità di fruire di benefici fiscali o di regimi opzionali;

4) strumenti per evitare le liti fiscali: la guida illustra i diversi istituti amministrativi per evitare le controversie tributarie (cosiddetti strumenti deflativi del contenzioso), come l’accertamento con adesione, l’autotutela, il reclamo e mediazione, che consentono di realizzare un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria;

5) sanzioni: un vademecum completo sulle sanzioni amministrative e penali che scattano in caso di violazione degli obblighi tributari (comprese le nuove sanzioni in materia di monitoraggio fiscale).

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - www.fiscopiu.it/La Stampa - "L'Agenzia informa": cinque nuove guide disponibili online

martedì 12 agosto 2014

Sul patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti di sorveglianza

1. Premessa. Il vuoto normativo relativo ai procedimenti innanzi al magistrato di sorveglianza e sua integrazione

La magistratura di sorveglianza ([1]) provvede di regola alla liquidazione dei compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato [o in ipotesi a questa assimilate dagli artt. 115 ss. D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 ([2])].

A prescindere da quanto si dirà in seguito sui rapporti intercorrenti col D.M. 140/2012 ([3]), tale liquidazione soggiace oggi alle disposizioni contenute nel D.M. 55/2014 ([4]), il cui art. 1 stabilisce: “Il presente regolamento disciplina per le prestazioni professionali i parametri dei compensi all'avvocato quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale degli stessi, comprese le ipotesi di liquidazione nonché di prestazione nell'interesse di terzi o prestazioni officiose previste dalla legge, ferma restando - anche in caso di determinazione contrattuale del compenso - la disciplina del rimborso spese di cui al successivo articolo 2”.

Le “disposizioni concernenti l’attività penale”, a loro volta, sono quelle contenute nel Capo III dello stesso D.M. 55/2014 (artt. 12-17).

Fondamentale tra queste si rivela l’art. 12 (Parametri generali per la determinazione dei compensi), il cui comma 1, dopo avere (in modo ridondante) sostanzialmente ripetuto quanto (più icasticamente) scritto nell’art. 12 D.M. 140/2012 ([5]), prevede: “Il giudice tiene conto dei valori medi di cui alle tabelle allegate, che, in applicazione dei parametri generali, possono, di regola,” ([6]) “essere aumentati fino all’80%, o diminuiti fino al 50%”.

Sennonché, l’allegata Tabella 15. Giudizi penali prende in considerazione soltanto il “Tribunale di Sorveglianza”, mentre nulla dice a proposito del “Magistrato di Sorveglianza”: donde la necessità di individuare i parametri utilizzabili per la liquidazione dei compensi spettanti al difensore per l’attività svolta innanzi a quest’ultimo.

Orbene!

E’ vero che lo stesso D.M. 55/2014 fornisce lo strumento finalizzato a colmare tale lacuna, rappresentato (ovviamente: v. art. 12, comma 2, preleggi) dall’applicazione analogica prevista dall’art. 3 ([7]).

Ma è parimenti vero che l’utilizzazione di tale strumento determina nella fattispecie risultati equivoci perché:

a) una “analogia organica” (basata, cioè, sulla composizione dell’organo giurisdizionale) induce ad applicare al “Magistrato di Sorveglianza” i parametri previsti dalla stessa tabella per il “Tribunale monocratico”;

b) una “analogia funzionale” (basata, cioè, sulla natura delle funzioni svolte) porta ad applicare al “Magistrato di Sorveglianza” i parametri ivi stabiliti per il “Tribunale di Sorveglianza”.

A nostro avviso è preferibile la soluzione sub a) perché:

i parametri numerici esplicitamente previsti dalla tabella de qua per il “Tribunale di Sorveglianza” sono assolutamente speculari a quelli indicati per la “Corte di Appello”, di guisa che il criterio ispiratore della tabella stessa sembra essere quello della composizione dell’organo e non quello della funzione espletata;

l’assimilazione tabellare del “Magistrato di Sorveglianza” al “Tribunale monocratico” (e del “Tribunale di Sorveglianza” alla “Corte di Appello”) era espressamente prevista dalla normativa precedente ([8]).

2. L’operatività dei parametri previsti dal D.M. 55/2014 rispetto ai procedimenti innanzi alla magistratura di sorveglianza

Va osservato adesso che la Tabella 15. Giudizi penali allegata al D.M. 55/2014 (coerentemente con la disposizione contenuta nell’art. 12, comma 3, secondo cui “il compenso si liquida per fasi”) indica valori medi di liquidazione per ciascuna delle quattro distinte fasi esemplificativamente individuate dal comma 12, comma 3: fase di studio, fase introduttiva, fase istruttoria o dibattimentale e fase decisionale ([9]).

Ciò posto, deve evidenziarsi che:

nei procedimenti di sorveglianza di solito non c’è un’istruttoria orale né si svolgono attività corrispondenti a quelle indicate a titolo esemplificativo dall’art. 12, comma 3, lettera c), D.M. 55/2014 (“le richieste, gli scritti, le partecipazioni o assistenze relative ad atti ed attività istruttorie procedimentali o processuali anche preliminari, rese anche in udienze pubbliche o in camera di consiglio, che sono funzionali alla ricerca di mezzi di prova, alla formazione della prova, comprese liste, citazioni e le relative notificazioni, l’esame dei consulenti, testimoni, indagati o imputati di reato connesso o collegato”);

quest’ultima disposizione [art. 12, comma 3, lettera c)] non parla di “esame degli scritti o dei documenti delle altre parti” [a differenza di quanto previsto per l’attività giudiziale civile dall’art. 4, comma 5, lettera c)] e, comunque, nei procedimenti di sorveglianza “l’altra parte” normalmente è il P.M., che altrettanto normalmente non produce alcunché;

la ricerca dei documenti prodotti dalla parte viene già prevista per la fase di studio [art. 12, comma 3, lettera a)]: di guisa che riconoscere qualcos’altro a tale titolo si risolverebbe in una inammissibile duplicazione di compenso per la stessa attività.

Pertanto, di solito nei procedimenti di sorveglianza nulla va riconosciuto per la fase istruttoria.

Quanto alla fase introduttiva, poi, si evidenzia che:

la magistratura di sorveglianza provvede normalmente ex officio oppure su richiesta del P.M. oppure su istanza (o dichiarazione di impugnazione) sottoscritta personalmente dall’interessato;

quando proviene dal difensore, l’atto introduttivo del procedimento è solitamente redatto in modo sintetico, stante il carattere officioso del procedimento stesso [nell’ambito del quale l’accertamento delle condizioni di ammissibilità e dei presupposti di merito del provvedimento richiesto è pressoché integralmente rimesso all’ufficio ([10])].

Quanto alla fase decisionale dei procedimenti di sorveglianza, infine, la medesima [che può anche mancare: si pensi, ad esempio e tra le più frequenti, alle istanze di liberazione anticipata ([11]) o a quelle di riabilitazione ([12]), sulle quali il magistrato di sorveglianza o, rispettivamente, il tribunale di sorveglianza provvedono de plano] quasi sempre si esaurisce nella discussione in un’unica udienza in camera di consiglio ([13]), la quale (discussione) a sua volta ha spesso una durata assai breve (quando non si risolve in un laconico “insiste” o “si oppone” o “si rimette”…).

Da quanto precede deriva che l’applicazione ai procedimenti di sorveglianza dei parametri generali stabiliti dall’art. 12, comma 1, D.M. 55/2014 (l’importanza, la natura e la complessità del procedimento, l’urgenza ed il pregio dell’opera prestata, il numero delle udienze, il tempo necessario all’espletamento delle attività, ecc.):

raramente può giustificare un aumento ex art. 12, comma 1, ultima parte, (“fino all’80%”) dei valori tabellari medi previsti per la fase di studio e/o per quella introduttiva e/o per quella decisionale;

normalmente, invece, impone una diminuzione ex art. 12, comma 1, ultima parte, (“fino al 50%”) dei valori tabellari medi previsti per la fase di studio e/o per quella introduttiva e/o per quella decisionale.

Deve sottolinearsi, infine, che:

l’art. 12, comma 2, ultima parte, D.M. 55/2014 prende (fittiziamente) in considerazione “le liquidazioni delle prestazioni svolte in favore dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato a norma del testo unico delle spese di giustizia di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002 n. 115”, stabilendo (in modo anodino e comunque assolutamente superfluo) che “si tiene specifico conto della concreta incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa”;

per esse (liquidazioni delle prestazioni svolte in favore dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato), invece, non è stata inserita alcuna disposizione analoga a quella ex comb. disp. artt. 9, ultima parte, e 12, comma 7, D.M. 140/2012, che prevedeva l’abbattimento, di regola, del 50% delle liquidazioni de quibus pure nella materia penale, analogamente a quanto previsto per la materia civile dall’art. 130 D.P.R. 115/2002;

per le suindicate liquidazioni (delle prestazioni svolte in favore dei soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato), nondimeno, opera la riduzione di un terzo prevista dall’art. 106-bis D.P.R. 115/2002 ([14]);

“oltre al compenso ed al rimborso delle spese documentate in relazione alle singole prestazioni, all’avvocato è dovuta, in ogni caso…, una somma per rimborso spese forfettarie di regola nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione” (art. 2, comma 2, D.M. 55/2014), nonché un’indennità ed un rimborso delle spese di trasferta a norma dell’art. 27 della materia stragiudiziale “per gli affari e le cause fuori dal luogo ove” l’avvocato stesso “svolge la professione in modo prevalente” (art. 15 D.M. 55/2014);

i compensi, però, non includono oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo (per esempio, IVA e CPA) (v. la disposizione generale contenuta nel comma 2 dell’art. 1, D.M. 140/2012, sulla cui persistente vigenza si dirà tra poco);

i criteri numerici indicati dalle tabelle allegate al decreto non sono vincolanti per il giudice, ma costituiscono solo criteri di massima: così come stabilito dall’ art. 1, comma 7, D.M. 140/2012, che deve considerasi ancora in vigore per le ragioni che passiamo ad esporre.

3. La persistente vigenza dell’art. 1 D.M. 140/2012 e conseguente derogabilità (pure) dei parametri previsti dal D.M. 55/2014

Subito dopo l’entrata in vigore del D.M. 55/2014 è stato “ritenuto… che il DM 140/12 sia da intendersi abrogato in quanto il DM 55/2014 regolamenta ex novo l’intera materia dei compensi forensi con una disciplina di nuovo conio (cd. abrogazione implicita) e, là dove non conferma disposizioni che erano presenti nel DM del 2012, mette mano ad una precisa scelta legislativa che prevale sulla precedente (abrogazione tacita)” ([15]).

Simili affermazioni rappresentano il portato di una lettura corriva dei due decreti in questione.

Per rendersi conto di ciò occorre considerare, anzitutto, che:

il D.M. 140/2012 è stato emanato in attuazione delle norme (costituzionalmente e comunitariamente necessarie) sulle c.d. liberalizzazioni e/o sulla concorrenza contenute nel D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 ([16]): più esattamente ed in particolare, anzi, in attuazione dell’art. 9, comma 2, primo periodo, stesso D.L. ed in conseguenza dell’abrogazione delle tariffe professionali regolamentate nel sistema ordinistico (operata dal comma 1 dell’art. 9 cit.);

la disciplina contenuta nel D.M. 140/2012 è così suddivisa:

Capo I - Disposizioni generali (Art. 1);

Capo II - Disposizioni concernenti gli avvocati (Artt. 2-14);

Capo III - Disposizioni concernenti i dottori commercialisti ed esperti contabili (Artt. 15-29);

Capo IV - Disposizioni concernenti i notai (Artt. 30-32);

Capo V - Disposizioni concernenti le professioni dell'area tecnica (Artt. 33-39);

Capo V-bis - Disposizioni concernenti gli assistenti sociali (Artt. 39bis- 39ter);

Capo V-ter - Disposizioni concernenti gli attuari (Artt. 39quater- 39septies);

Capo VI - Disposizioni concernenti le altre professioni (Art. 40);

Capo VII - Disciplina transitoria ed entrata in vigore (Artt. 41-42).

Il D.M. 55/2014, invece, è stato emanato in attuazione dell’art. 13, comma 6, L. 31 dicembre 2012 n. 247: Legge che, dettando la “nuova disciplina dell’ordinamento professionale forense”, come tale non ha inteso (né poteva) derogare al D.L. 1/2012 sulle liberalizzazioni e sulla concorrenza.

Alla stregua di quanto precede è agevolare concludere che:

il D.M. 140/2012 ha un ambito applicativo generale perché riguarda i compensi di tutte le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della giustizia, articolandosi a sua volta in “disposizioni generali” applicabili a tutte le professioni considerate ed in 7 “discipline settoriali” interessanti altrettante (e specifiche) aree professionali;

il D.M. 55/2014, invece, ha un ambito applicativo esclusivamente settoriale perché riguarda i compensi di una sola tra le professioni regolamentate vigilate dal Ministero della giustizia: quella forense;

pertanto, il D.M. 55/2014 non ha regolato l’intera materia disciplinata dal D.M. 140/2012: di guisa che quest’ultimo non può considerarsi integralmente abrogato ex art. 15, ultima parte, preleggi;

la normativa contenuta nel D.M. 55/2014 (e nelle tabelle ad esso allegate), peraltro, “sovrapponendosi” (solamente) alle “disposizioni concernenti gli avvocati” comprese nel Capo II (art. 2-15) del D.M. 140/2012 e nelle tabelle ad esso allegate, ha regolato nuovamente (ma esclusivamente) la specifica materia già disciplinata da codeste disposizioni: quella dei compensi per la professione forense;

conseguentemente, queste ultime (disposizioni ex art. 2-15 D.M. 140/2012 e tabelle ad esso allegate) ed esse soltanto possono considerarsi abrogate per effetto del D.M. 55/2014;

invece (ed in mancanza di un’espressa abrogazione delle stesse e/o dell’intero D.M. 140/2012), restano in vigore le “disposizioni generali” contenute nel Capo I del D.M. 140/2012 e, in particolare, quella dell’art. 1, comma 7, secondo cui le soglie numeriche tabellarmente indicate “in nessun caso … sono vincolanti per la liquidazione”.

4. La supposta inderogabilità dei “nuovi” parametri quale causa di invalidità del D.M. 55/2014 e della sua disapplicabilità. Premessa

Mette conto ora evidenziare che soltanto questa conclusione [sulla persistente vigenza dell’art. 1 D.M. 140/2012 e sulla conseguente derogabilità (“sia nei minimi che nei massimi”) pure delle soglie numeriche indicate nel sopravvenuto D.M. 55/2014 e nella tabelle ad esso allegate] consente al giudice di applicare le “nuove” disposizioni introdotte dal D.M. 55/2014.

In caso contrario, infatti, ed assumendosi per ipotesi l’inderogabilità dei “nuovi” valori tabellari da esso introdotti, il D.M. 55/2014 presenterebbe tanti e tali profili di illegittimità da esporsi a disapplicazione ai sensi dell’art. 5 L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E, trattandosi:

di atto (a contenuto normativo, ma) formalmente amministrativo, costituente l’oggetto di un mero “rinvio formale” da parte degli artt. 1, comma 3, e 13, comma 6, L. 31 dicembre 2012 n. 247 ([17]);

di atto incidente su materia nella quale si fa questione di diritto soggettivo ([18]).

4.1. (Segue) La supposta inderogabilità dei “nuovi” parametri quale causa di disapplicabilità del D.M. 55/2014 per violazione dell’art. 2, comma 1, D.L. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani)

La supposta inderogabilità dei valori minimi stabiliti dal D.M. 55/2014 e tabelle allegate, anzitutto, inficerebbe la validità di quest’ultimo per violazione di legge: per violazione, più esattamente, dell’art. 2, comma 1, D.L. 4 luglio 2006 n. 223 (convertito dalla L. 4 agosto 2006 n. 248: c.d. Decreto Bersani), il quale dispone: “… in conformità al principio comunitario di libera concorrenza … al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: a) l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti …” ([19]).

4.2. (Segue) La supposta inderogabilità dei “nuovi” parametri quale causa di disapplicabilità del D.M. 55/2014 per violazione dell’art. 3 Cost.

Con specifico riferimento ai “nuovi” valori tabellari relativi alla magistratura di sorveglianza, poi, la loro pretesa inderogabilità renderebbe il D.M. 55/2014 illegittimo per violazione dell’art. 3 Cost. e/o per eccesso di potere ([20]).

Per rendersi conto di ciò, si deve ricordare che (come si è già detto: v. par. 1) la liquidazione giudiziale dei compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato per l’attività svolta innanzi al “Magistrato di Sorveglianza” o innanzi al “Tribunale di Sorveglianza” avviene (alla stregua della Tabella 15. Giudizi Penali allegata al D.M. 55/2014) secondo parametri numerici totalmente identici a quelli utilizzabili per la liquidazione giudiziale dei compensi spettanti ai difensori dei soggetti ammessi a patrocinio a spese dello Stato innanzi, rispettivamente, al “Tribunale monocratico” ed alla “Corte di Appello”.

Il che, tuttavia, si risolve in una irragionevole parificazione normativa di situazioni sostanziali intrinsecamente diverse ([21]).

I procedimenti giudiziari innanzi alla magistratura di sorveglianza, invero, indubbiamente implicano normalmente (anzi, quasi sempre) un impegno assai più modesto (per il pregio dell’opera prestata, per l’importanza, la natura, la complessità e la durata del procedimento, ecc.) rispetto a quello “speso” dal professionista nei procedimenti penali innanzi al tribunale monocratico ed alla corte di appello, atteso che:

statisticamente la maggior parte delle udienze innanzi alla magistratura di sorveglianza ha per oggetto (per quanto riguarda l’organo monocratico) il riesame della pericolosità di persone sottoposte a misure di sicurezza oppure (relativamente all’organo collegiale) la richiesta di misure alternative alla detenzione o l’impugnazione dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza in tema di liberazione anticipata o di permessi: procedimenti che normalmente sono avviati d’ufficio o su istanza-impugnazione personale dell’interessato, che quasi sempre sono istruiti ex officio, che spesso implicano l’esame di poche (al massimo 3-4) decine di fogli cartacei e che di regola vengono definiti in un’unica udienza camerale ed a seguito di brevissima discussione tra le parti;

la stragrande maggioranza delle udienze (penali) innanzi al tribunale monocratico ed alla corte di appello, invece, ha per oggetto l’accertamento (rispettivamente, in primo ed in secondo grado) della responsabilità penale di soggetti imputati di uno o più reati, il quale (accertamento) impone notoriamente all’organo giudicante ed ai difensori il compimento di attività assai onerose per impegno, studio e durata.

Risulta evidente, perciò, che solo una “flessibilità” (ex art. 1, comma 7, D.M. 140/2012) dei “nuovi” parametri tabellari consente al giudice di “bilanciare” adeguatamente i compensi e di differenziarli ragionevolmente ed equamente in base alle caratteristiche dell’attività svolta casu concreto dai difensori, evitando che l’opera professionale (normalmente “modesta”) espletata innanzi alla magistratura di sorveglianza venga remunerata allo stesso modo (o quasi) di quella (ben più impegnativa ed importante) posta in essere davanti al tribunale monocratico o alla corte di appello.

4.3. (Segue) La supposta inderogabilità dei “nuovi” parametri quale causa di disapplicabilità del D.M. 55/2014 per violazione dell’art. 1, comma 5, L. 247/2012

L’ipotizzata inderogabilità dei valori minimi stabiliti dal D.M. 55/2014 e tabelle allegate, infine, concretizzerebbe un altro suo vizio di legittimità per violazione dell’art. 1, comma 5, L. 31 dicembre 2012 n. 247, il quale afferma perentoriamente che “dall'attuazione dei regolamenti di cui al comma 3” (ivi compreso quello in esame: v. art. 13, comma 6) “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

A questo proposito mette conto evidenziare preliminarmente le forti “riserve” espresse dal Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, Adunanza di Sezione del 24 ottobre 2013, numero affare 03398/2013, punto III.2: “A diversa conclusione si deve pervenire per quanto concerne il profilo della liquidazione delle prestazioni svolte in favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato nella materia penale, per la quale gli importi vengono ridotti, di regola, del 30 per cento, ai sensi dell’articolo 12, secondo comma, ultimo periodo, a fronte di quanto già previsto in materia civile (riduzione del 50 per cento). Pur condividendo solo in parte le ragioni del minore abbattimento esposte nella relazione illustrativa (id est, specificità della attività di difesa in un ambito che investe la tutela di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, quali la libertà e la dignità della persona), non sembra al Collegio ragionevole l’assunto alla base del minore abbattimento, identificabile, sostanzialmente, in una ritenuta maggiore “dignità” dell’attività defensionale nel settore giudiziale di cui trattasi. Si suggerisce, pertanto, un ridimensionamento del parametro, in misura pari al 5/10 per cento, avuto altresì riguardo alle esigenze di bilancio prospettate dal competente ufficio del Ministero e, non ultimo, alla disposizione di cui all’articolo 1, comma 5, della norma primaria, secondo cui “dalla attuazione dei regolamenti di cui al comma 3 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

Ciò premesso in via generale e passando adesso a più dettagliate valutazioni specifiche alla magistratura di sorveglianza, si rileva che in base ai criteri del D.M. 140/2012 [recte, tenuto conto: a) del valore medio di liquidazione; b) del massimo della percentuale di diminuzione prevista dalla Tabella B, allegata al D.M. 140/2012; c) della riduzione del 50% ex art. 9, comma 1, secondo periodo, ultima parte, D.M. 20 luglio 2012 n. 140 (richiamato dall’art. 12, comma 7, stesso D.M.) prevista per le liquidazione dei compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato (o di soggetti ad essi assimilati)] si avevano i seguenti importi minimi per ciascuna fase:

Magistrato di Sorveglianza

a) Fase di studio: euro 75

b) Fase introduttiva: euro 150

c) Fase istruttoria: euro 135

d) Fase decisoria: euro 135

e) Fase esecutiva: euro 5 per ora o frazione di ora

Tribunale di Sorveglianza

a) Fase di studio: euro 120

b) Fase introduttiva: euro 240

c) Fase istruttoria: euro 216

d) Fase decisoria: euro 216

e) Fase esecutiva: euro 8 per ora o frazione di ora.

L’art. 14, comma 7, D.M. 140/2012, peraltro, precisava che “nella fase esecutiva sono comprese tutte le attività connesse all’esecuzione della pena o delle misure cautelari”, le quali tuttavia non hanno attinenza con il procedimento di sorveglianza. Per “attività connesse all’esecuzione della pena”, invero, si era inteso far riferimento alle attività tipiche del giudice dell’esecuzione (artt. 665-676 c.p.p.): di guisa che nei procedimenti di sorveglianza praticamente non veniva riconosciuto alcunché per la fase esecutiva.

In base ai “nuovi” criteri previsti dal D.M. 55/2014 e dalle tabelle ad esso allegate [recte, tenuto conto: a) del valore medio di liquidazione; b) del massimo della percentuale di diminuzione prevista dall’art. 12, comma 1, ultima parte, D.M. 55/2014; c) della riduzione di un terzo prevista dall’art. 106-bis D.P.R. 115/2002 per le liquidazione dei compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato (o di soggetti ad essi assimilati)], invece, si hanno i seguenti importi minimi per ciascuna fase:

Magistrato di Sorveglianza

a) Fase di studio: euro 150

b) Fase introduttiva: euro 180

c) Fase istruttoria: euro 360

d) Fase decisionale: euro 450

Tribunale di Sorveglianza

a) Fase di studio: euro 150

b) Fase introduttiva: euro 300

c) Fase istruttoria: euro 450

d) Fase decisionale: euro 450

Il totale degli importi minimi, quindi, in base al D.M. 140/2012 risultava pari:

per i procedimenti innanzi al magistrato di sorveglianza ad euro 495,00;

per i procedimenti innanzi al tribunale di sorveglianza ad euro 792,00.

Lo stesso totale, invece, in base al D.M. 55/2014 è oggi pari:

per i procedimenti innanzi al magistrato di sorveglianza ad euro 1.140,00;

per i procedimenti innanzi al tribunale di sorveglianza ad euro 1.350,00.

Alla stregua di quanto precede nessuno può contestare il fatto che la liquidazione giudiziale dei compensi spettanti ai difensori di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato (e di soggetti ad essi assimilati), se effettuata in base ad una “obbligatoria ed inderogabile” applicazione dei criteri e dei valori tabellari minimi contenuti nel D.M. 55/2014, comporterebbe necessariamente quei “maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, che l’art. 1, comma 5, L. 247/2012 ha espressamente e perentoriamente vietato.

5. Conclusioni

Tutte le superiori considerazioni portano logicamente alle seguenti soluzioni alternative:

A) ritenere (come facciamo noi) che pure le “nuove” soglie numeriche indicate nel D.M. 55/2014 e nelle tabelle ad esso allegate non siano vincolanti per il giudice (né nei limiti minimi né in quelli massimi) in applicazione dell’ancor vigente disposizione “generalissima” contenuta nell’art. 1, comma 7, D.M. 140/20012;

oppure

B) esclusa l’attuale vigenza dell’art. 1, comma 7, D.M. 140/2012, ritenere illegittimo [per le suesposte violazioni dell’art. 2, comma 1, D.L. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani) e/o dell’art. 3 Cost. e/o dell’art. 1, comma 5, L. 247/2012] il D.M. 55/2014 e disapplicarlo ai sensi dell’art. 5 L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E: con conseguente ricorso alla disciplina sussidiaria contenuta nella disposizione generale sul lavoro autonomo ex art. 2225 cod. civ. (secondo cui il compenso “è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo”) e nella disposizione relativa alle professioni intellettuali ex art. 2231, comma 1 e comma 2, cod. civ. (secondo cui il compenso del professionista è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale, in “misura adeguata all’importanza dell’opera e del decoro della professione”).

Tertium non datur!

Non appare inutile, infine, sottolineare che potrebbe incorrere in responsabilità amministrativa per colpa grave ([22]) il giudice che, ritenendo (erroneamente) abrogato l’art. 1, comma, 7, D.M. 140/2012 ed applicando (pedissequamente ed erroneamente) i “nuovi” (illegittimi) parametri introdotti dal D.M. 55/2014, contribuisce di fatto con il suo provvedimento a determinare quei maggiori oneri a carico della finanza pubblica vietati dall’art. 1, comma 5, L. 247/2012 ([23]).

fonte: Altalex.com//Sul patrocinio a spese dello Stato nei procedimenti di sorveglianza

venerdì 8 agosto 2014

Assegno non trasferibile: attenzione a chi si presenta alla cassa

Secondo l’art. 43, comma 2, r.d. n. 1736/1933 (legge assegni), chi paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento. Nel caso in cui la banca girataria per incasso d’assegno, munito di clausola di intrasferibilità, abbia eseguito il pagamento nei confronti di un soggetto non creditore, pur legittimato in modo apparente, è tenuta ad un nuovo pagamento nei confronti dell’effettivo e legittimo prenditore. Lo afferma la Cassazione nella sentenza 11897/14.

Il caso

La Corte d’appello di Milano rigettava la domanda di una donna, che aveva convenuto in giudizio una banca, per sentirla condannare alla corresponsione di una somma per l’illegittimo pagamento di propri assegni bancari non trasferibili al suo fiduciario. La banca si difendeva, sostenendo che gli assegni erano stati pagati all’uomo, consegnatario e portatore di essi, seguendo le istruzioni della traente.

La donna ricorreva in Cassazione, contestando la mancata responsabilità dell’istituto nonostante il pagamento di due assegni non trasferibili a degli illegittimi prenditori, e sostenendo che la banca era sua mandataria, vincolata al rispetto delle pattuizioni previste dal contratto di conto corrente bancario con la diligenza richiesta per l’esercizio professionale dell’attività svolta. In più, i giudici non avrebbero posto a fondamento della decisione le prove acquisite, dovendo considerarsi comunque che l’eventuale mandato all’incasso non poteva che risultare dallo stesso titolo. Infine, erroneamente la sentenza avrebbe trattato di presunzione di tacita approvazione degli estratti conto, regolarmente ricevuti dalla correntista.

Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che, secondo l’art. 43, comma 2, r.d. n. 1736/1933 (legge assegni), chi paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal prenditore o dal banchiere giratario per l’incasso risponde del pagamento. Nel caso in cui la banca girataria per incasso d’assegno, munito di clausola di intrasferibilità, abbia eseguito il pagamento nei confronti di un soggetto non creditore, pur legittimato in modo apparente, è tenuta ad un nuovo pagamento nei confronti dell’effettivo e legittimo prenditore.

Riguardo al presunto mandato, i giudici di legittimità sottolineavano che, stante la caratteristica della letteralità del titolo di credito, un’obbligazione cartolare in nome altrui, come il mandato all’incasso, deve essere apposta sul titolo stesso, con l’indicazione del soggetto e della sua qualità di rappresentante. Infine, la presunzione di tacita approvazione di conto corrente, una volta passato il termine di 6 mesi dalla ricezione, riguarda solo accrediti ed addebiti, considerati nella loro realtà effettuale, ma non comporta l’approvazione della validità e dell’efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti. Per questi motivi, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Assegno non trasferibile: attenzione a chi si presenta alla cassa

Rapina, calza leggera sul viso: inutile e dannosa. Scatta l’aggravante

Ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del travisamento nel delitto di rapina, è sufficiente una lieve alterazione dell’aspetto esteriore della persona, conseguita con qualsiasi mezzo, anche rudimentale, purché idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona stessa. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 21890/14.

Il caso

La Corte d’appello di Brescia condannava un imputato per il reato di rapina aggravata dal travisamento, in quanto, secondo l’accusa, avrebbe, con il volto coperto da una calza di nylon, spingendo la porta di casa della vittima e minacciandola, preso una somma minima di denaro e due cellulari. L’imputato ricorreva in Cassazione, lamentando la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante collegata al travisamento, poiché la calzamaglia indossata sul viso era così leggera da non impedire alla vittima di individuarne i tratti somatici, descritti, infatti, puntualmente in seguito. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione reputava che non rilevasse il fatto che la calza, per la sua leggerezza, non avesse impedito del tutto la visualizzazione dei tratti somatici, in quanto, ai fini della sussistenza della circostanza aggravante del travisamento nel delitto di rapina, è sufficiente una lieve alterazione dell’aspetto esteriore della persona, conseguita con qualsiasi mezzo anche rudimentale, purché idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona stessa. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Rapina, calza leggera sul viso: inutile e dannosa. Scatta l’aggravante

mercoledì 6 agosto 2014

Aggiornamento del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate

In data 15 luglio 2014 è stato reso pubblico l'aggiornamento del Codice di Autodisciplina delle società quotate predisposto dal Comitato per la Corporate Governance istituito dalle principali associazioni italiane di categoria (Ania, Abi, Assogestioni, Assonime e Confindustria) e da Borsa Italiana. Il Comitato ha apportato alcune innovazioni al testo in essere che già aveva subito diverse modifiche nel 2011.

In estrema sintesi, l'intervento di aggiornamento ha per oggetto, in primis, alcune modifiche che rafforzano il principio comply or explain (in linea con i "suggerimenti" della Commissione Europea); inoltre, nel rispetto della Comunicazione Consob n. DCG/DSR/0051400 del 19 giugno 2014 sono state introdotte modifiche volte ad incoraggiare la massima trasparenza sulle buonuscite riconosciute agli amministratori esecutivi e ai direttori generali.

Il Codice è stato altresì adeguato, ovvero meglio graduato, al fine di agevolare le PMI quotate (si ricorda a tal riguardo che dal 1° marzo 2012 vi è un nuovo mercato interamente dedicato alle PMI: l' AIM Italia - Mercato Alternativo del Capitale).

Da sottolineare il fatto che, come in precedenza, l'applicazione delle raccomandazioni inserite nel Codice è rimessa alla libera e volontaria scelta della società quotata.

Le novità in sintesi

Una prima novità riguarda il contenuto della relazione sul governo societario e la disapplicazione delle raccomandazioni. L'impostazione del Codice è infatti flessibile e consente agli emittenti di disapplicare, in tutto o in parte, alcune delle sue raccomandazioni.

In particolare, in linea con la Raccomandazione UE n. 208/2014, gli emittenti devono indicare chiaramente nella relazione sul governo societario le specifiche raccomandazioni, contenute nei principi e nei criteri applicativi, da cui si sono discostati e, per ogni scostamento: (a) spiegano in che modo hanno disatteso la raccomandazione; (b) descrivono i motivi dello scostamento, evitando espressioni generiche o formalistiche; (c) descrivono come la decisione di discostarsi dalla raccomandazione è stata presa all'interno della società; (d) se lo scostamento è limitato nel tempo, indicano a partire da quando prevedono di attenersi alla relativa raccomandazione; (e) descrivono l'eventuale comportamento adottato in alternativa alle raccomandazioni da cui si sono discostati e spiegano il modo in cui tale comportamento raggiunge l'obiettivo sotteso alla raccomandazione oppure chiariscono in che modo il comportamento prescelto contribuisce al loro buon governo societario.

In forza del meccanismo del comply or explain previsto dall'art. 123-bis del Testo Unico della Finanza è necessario spiegare le ragioni della disapplicazione. Si tiene conto inoltre (e questa è una novità) alle caratteristiche del soggetto emittente che adotta o meno alcune raccomandazioni. E' possibile infatti che una società non sia ancora strutturata per far proprie tutte le raccomandazioni del Codice ovvero alcune di tali raccomandazioni potrebbero non essere ritenute in linea con il modello di governance adottato dall'emittente.

Di particolare rilevanza è poi il principio di trasparenza che la società dovrebbe garantire, fornendo altresì informazioni sul procedimento interno seguito dalla società per assumere la decisione di discostarsi da una o più raccomandazioni del Codice.

Un'altra importante novità riguarda il tema dell'indennità o di altri benefici di amministratori esecutivi o direttori generali in caso di cessazione dalla carica.

Più precisamente, il Codice è stato adeguato per garantire una migliore e tempestiva trasparenza nei confronti del mercato e, conseguentemente, consentire un più consapevole apprezzamento della governance delle società quotate. In particolare, è stato introdotto un nuovo principio che raccomanda a tutti gli emittenti, in occasione della cessazione dalla carica di amministratori esecutivi o dello scioglimento del rapporto con i direttori generali, di rendere note - ad esito dei processi interni che conducono all'attribuzione o al riconoscimento delle indennità o di altri benefici - informazioni dettagliate in merito, mediante un comunicato diffuso al mercato.

Il principio si uniforma a quanto contenuto nella delibera Consob del 19 giugno, laddove in occasione della disciplina inerente la relazione sulla remunerazione per le società quotate, esplicitamente si segnala che "un'adeguata e tempestiva trasparenza nei confronti del mercato sulle deliberazioni relative alle indennità e/o altri benefici per cessazione dalla carica è strumentale a un più consapevole apprezzamento della governance delle società quotate e all'esercizio dei diritti di voice degli azionisti, incluso il voto, di natura consultiva o vincolante, sulle politiche retributive. ". Ed infatti "il Comitato ritiene che la trasparenza sulle indennità per la cessazione del rapporto sia funzionale ad anticipare l'informativa rispetto alla pubblicazione della relazione sulla remunerazione e che tale informativa riguardi tutti i casi in cui il rapporto cessi, sia a seguito di scadenza naturale del mandato, sia in caso di scioglimento anticipato del rapporto".

Ai sensi del Codice, pertanto, "l'emittente, in occasione della cessazione della carica e/o scioglimento del rapporto con un amministratore esecutivo o un direttore generale, rende note, ad esito dei processi interni che conducono alla attribuzione o al riconoscimento di indennità e/o altri benefici, informazioni dettagliate in merito, mediante un comunicato diffuso al mercato". Questo criterio andrebbe già applicato a partire dal 1 agosto 2014. Nel criterio applicativo 6 C8 viene inoltre indicato in dettaglio il contenuto del comunicato al mercato.

Infine, fra i criteri applicativi inseriti nel Codice vi è anche quello in base al quale nella politica sulla remunerazione vanno tenute in considerazione "intese contrattuali che consentono alla società di chiedere la restituzione – in tutto o in parte – di componenti variabili della remunerazione versate (o di trattenere somme oggetto di differimento), determinate sulla base di dati che si siano rivelati in seguito manifestamente infondati." Questa modifica andrebbe applicata – in base alla raccomandazione del Codice – a decorrere dalla nuova politica di remunerazione approvata a partire dal 1 gennaio 2015.

Conclusioni

Fra le maggiori novità inserite nel Codice vi sono quelle in materia di buonuscite degli amministratori, tema che è stato oggetto di varie indagini negli ultimi anni.

Le cosiddette buonuscite sono previste spesso da clausole contrattuali, con le quali le aziende si impegnano a versare una determinata somma di denaro, in caso si interrompa il rapporto di collaborazione con il proprio management. Il problema è che questa forma di liquidazione è stata finora considerata in Italia un diritto incondizionato e indipendente dalle performance aziendali (quindi elargita anche in casi di operato non soddisfacente), nonostante le direttive europee. Secondo queste ultime, le regole da seguire sono in estrema sintesi tre: (i) istituire un limite massimo alla buonuscita, fissato a due annualità di stipendio; (ii) prevedere la possibilità di chiedere la restituzione della buonuscita a fronte di performance aziendali negative (le cosiddette "claw back clauses"); (iii) utilizzare maggiore trasparenza informativa sulla natura, l'entità e le clausole dei contratti.

Si noti, per concludere che, in base al Rapporto Assonime del 2013 le buonuscite medie ammontano a 3 milioni di euro circa per i 67 amministratori esecutivi cessati nel 2012. Dati rilevanti, specie in un momento di crisi quale quello attuale.

fonte: ilsole24ore.com//Aggiornamento del Codice di Autodisciplina delle Società Quotate

martedì 5 agosto 2014

Il lavoratore è esperto, ma a scuola ci deve andare comunque

In materia di tutela della salute e della sicurezza, l’attività di formazione del lavoratore, a cui è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal suo personale bagaglio di conoscenze, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra loro. L’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e formazione legislativamente previste. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 21242/14.

Il caso

La Corte d’appello di Trieste confermava la condanna nei confronti di un uomo, accusato del reato di lesioni colpose gravi a danno di un suo dipendente, che era rimasto ferito mentre lavorava ad un apparecchio tritacarne. L’imputato, legale rappresentante di una società, non avrebbe adeguatamente formato il lavoratore sull’uso, e la pericolosità, del macchinario.

L’imputato ricorreva in Cassazione, affermando che il dipendente aveva dichiarato di aver lavorato per molti anni con tali tipi di apparecchiature e di essere già stato fornito in precedenza di tutti gli strumenti antinfortunistici. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione segnalava che una conoscenza generica delle modalità di utilizzo dell’apparecchio e dei connessi rischi insiti, anche quando derivata dal pregresso svolgimento di compiti analoghi non surroga l’attività di formazione che il datore di lavoro è tenuto a somministrare al lavoratore. Il datore di lavoro, quindi, ha l’obbligo di assicurare ai lavoratori una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni, in maniera tale da renderlo edotto sui rischi inerenti ai lavori a cui è addetto, senza che abbia rilievo, nel senso di escludere tale obbligo, la circostanza della destinazione occasionale del lavoratore a mansioni diverse da quelle cui questi abitualmente attendeva. Le conoscenze aiutano, ma non escludono la formazione.

In più, l’attività di formazione del lavoratore, a cui è tenuto il datore di lavoro, non è esclusa dal suo personale bagaglio di conoscenze, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenze che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra loro.

L’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e delle prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e formazione legislativamente previste. Perciò, la prova dell’assolvimento degli obblighi di informazione e di formazione del dipendente non potevano non poteva basarsi sulla semplice dichiarazione del lavoratore infortunato, che aveva vantato una sua esperienza nell’utilizzo del macchinario. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Il lavoratore è esperto, ma a scuola ci deve andare comunque

Legata al letto, si libera in pochi minuti: troppi comunque per evitare il reato

La configurabilità del delitto di sequestro di persona prescinde dalla durata dello stato di privazione della libertà, che può essere limitato anche ad un tempo breve. Lo stabilisce la Cassazione nella sentenza 21314/14.

Il caso

Il tribunale di Reggio Calabria, in sede di riesame, disponeva la misura degli arresti domiciliari nei confronti di un uomo, accusato di lesioni aggravate e di sequestro di persona ai danni della convivente. L’imputato ricorreva in Cassazione, contestando l’idoneità della sua condotta a limitare la libertà della donna, che, dopo essere stata legata con una fascetta alla gamba, si era poi liberata agevolmente. Analizzando la domanda, la Corte di Cassazione ricordava che la configurabilità del delitto di sequestro di persona prescinde dalla durata dello stato di privazione della libertà, che può essere limitato anche ad un tempo breve. Nel caso di specie, la donna, dopo essere stata colpita ripetutamente, era stata legata al letto e solo dopo mezz’ora era riuscita a liberarsi. Di conseguenza, il fatto che la vittima si fosse poi liberata non dimostrava affatto che l’azione fosse caratterizzata da un’originaria ed assoluta inidoneità a privare la donna della libertà personale. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Legata al letto, si libera in pochi minuti: troppi comunque per evitare il reato

sabato 2 agosto 2014

Speciale #Processo Civile Telematico. BUONA LETTURA E BUONE VACANZE

Nel link sottostante tutto lo speciale dedicato al PCT in versione integrale da stampare e leggere in alternativa alle solite letture estive da spiaggia, tra un bagno in mare e una partita a racchettoni sulla sabbia!

fonte://www.dirittoegiustizia.it/allegati/PP_PROF_pct_s.pdf

venerdì 1 agosto 2014

"Compro oro", regime Iva applicabile

Primi effetti della risoluzione n° 92/E/13 dell’Agenzia delle Entrate: le attività di “compra oro” applicano il regime Iva dell’inversione contabile indipendentemente dalla natura del bene destinato alla fusione (C.T.R. della Toscana, n° 857/30/14)

I giudici della Commissione Tributaria Regionale della Toscana con la recente sentenza n° 857/30/14 (depositata in cancelleria il 28.04.2014), hanno risolto – ai sensi della nuova risoluzione n° 92/E/13 dell’A.d.E. – la nota questione riguardante il regime Iva più corretto da applicare (per le attività dei compra oro[1], in relazione alla fusione di rottami), stabilendo che per tale categoria di contribuenti (in virtù dei beni destinati alla mera fusione) vige il meccanismo del c.d. reverse charge[2].

In buona sostanza, a nulla rileva la natura e la tipologia del bene (“sia esso da considerare usato o rottame”), difatti l’elemento decisivo è rappresentato dalla oggettiva ed incontestabile destinazione dell’oggetto, ovvero sia fuso e/o rottamato presso imprese specializzate.

I fatti del processo

La controversia in parola traeva origine da una verifica fiscale svolta dalla Guardia di Finanza presso la sede del “compro oro”, in forza della quale i verificatori rilevavano che il contribuente acquistava gioielli (usati e rottami) da privati e, successivamente, li rivendeva ad operatori professionisti nel settore dell’oro[3].

In particolare, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai finanzieri, il contribuente attribuiva “indebitamente”, ad una parte della suddetta merce, la natura di “rottami d’oro usati”, applicando il regime Iva dell’inversione contabile e non quello sul margine (D.L. 23 febbraio 1995, n° 41, convertito in Legge 22 marzo 1995, n° 85[4]).

Proprio sul punto, la normativa in questione (art. 17, comma 5, D.P.R. n° 633/72) prevede che “per le cessioni di materiale di oro e per quelle di prodotti semilavorati […] al pagamento dell’imposta è tenuto il cessionario, se soggetto passivo di imposta nel territorio dello Stato”.

A maggior chiarimento, nella Risoluzione n° 375/E del 28 novembre 2002 era stato stabilito che “anche l'imposta sugli acquisti di rottami di gioielli d'oro, destinati ad essere sottoposti al procedimenti industriale di fusione e successiva affinazione chimica per il recupero del materiale prezioso ivi contenuto, può essere assolta mediante la particolare procedura prevista dall'art. 17, comma 5, trattandosi di semilavorato privo di uno specifico uso o destinazione, essendo necessario un ulteriore stadio di lavorazione o trasformazione che ne consenta l'utilizzo da parte del consumatore finale”.

In generale, trova pacifica applicazione il regime del reverse charge, laddove il cessionario (acquirente) dei “presunti” rottami non li destini al consumo finale, nonché operi esclusivamente nel settore del recupero dei materiali preziosi e non nella commercializzazione dei gioielli.

Per effetto del citato Processo Verbale di Constatazione, l’Agenzia delle Entrate emetteva quattro avvisi di accertamento (per gli anni di imposta 2006 - 2009), finalizzati – appunto – al recupero dell’Iva nei confronti del contribuente (esercente l’attività di c.d. compra oro) pari ad €. 67.437,00, oltre interessi maturati e sanzioni irrogate.

In breve, l’Ufficio – riprendendo pedissequamente i rilievi della GdF – addebitava al soggetto interessato un’errata applicazione del regime Iva nella fusione dei rottami di oro (inversione contabile, anziché il meccanismo del “margine”).

Secondo la tesi dell’Ufficio (confermata dai giudici di primo grado con la sentenza n° 161/4/12 della C.T.P. di Lucca), il contribuente aveva effettuato “la cessione meramente documentale di rottami d’oro, materiale d’oro, e/o gioielli d’oro avariati, in luogo di effettive cessioni di oggetti di oreficerie e di gioiellerie d’oro usati […] attribuendo, tuttavia, alla stessa merce nei documenti fiscali la natura di rottami d’oro usati”.

Per tale ragione, l’Amministrazione finanziaria rimarcava l’errata applicazione dell’inversione contabile (c.d. reverse charge) prevista dal citato art. 17, atteso che i beni venduti per la fusione non erano rottami, bensì gioielli usati (in tale ipotesi, secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate, doveva essere applicata l’Iva sul margine).

Il ricorrente – nelle more del primo giudizio – sosteneva l’assoluta legittimità del proprio operato (applicazione dell’inversione contabile): a tal fine, aveva prodotto documentazione idonea (atti di acquisto del gioiello dal privato, registro beni usati[5], documenti di trasporto firmati dal destinatario, fatture emesse per la cessione dei beni alla società di fonderia, esame chimico sui rottami inviati alla fusione), diretta a comprovare – oltre ogni ragionevole dubbio – che i gioielli ceduti alle imprese specializzate nella fusione fossero veri e propri “rottami” e non gioielli “usati”; tuttavia la C.T.P. di Lucca respingeva il ricorso. Avverso tale pronuncia, il contribuente proponeva appello.

La decisione dei giudici

In breve, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana ha ribaltato la decisione dei giudici di prime cure ed ha annullato la sentenza impugnata, applicando gli effetti della nuova Risoluzione n° 92/E del 12.12.2013, nella quale l’Amministrazione finanziaria ha stabilito che l’applicazione dell’inversione contabile alle cessioni nel settore dei “compra oro” riguarda “non solamente i rottami in senso stretto, ma qualsiasi bene di oro usato, a prescindere dalle condizioni in cui si trova (sia esso integro ovvero rotto o difettoso, riparabile o meno), in considerazione della destinazione di tali materiali”.

A ben vedere, ciò che rileva – ai fini del meccanismo Iva corretto da applicare in siffatto ambito - è la destinazione “finale” dei gioielli, ossia se inviati unicamente per la loro “fusione” oppure per un nuovo “riutilizzo” (in seguito, ad esempio, ad un intervento di riparazione).

In altri termini, se il cessionario dei gioielli (rottami o usati) svolge un’attività di fusione e/o trasformazione industriale del metallo, è automatica l’applicazione dell’inversione contabile, atteso che quello che rileva non è la natura del bene trasmesso alla fusione, bensì la propria destinazione.

Difatti, l’appellante - già nel ricorso introduttivo - aveva dimostrato che i gioielli ceduti fossero stati “rottamati” da una società proprio di fusione/trasformazione, la quale non operava (all’epoca dei fatti contestati) nella commercializzazione dei gioielli.

Non solo, a dimostrazione dell’attività di fusione del cessionario, il contribuente aveva allegato – per ogni singola attività di fusione svolta, come del resto evidenziato dagli stessi giudici regionali - “la tipologia dell’acquisto, la grammatura, il prezzo pagato, la fattura, il destinatario e la destinazione del bene (fusione e/o trasformazione)”, quindi era stato assolto l’onere probatorio posto a carico del contribuente.

In definitiva, secondo i giudici, era stata raggiunta la dimostrazione circa la natura di rottami dei beni, pertanto l’applicazione dell’inversione contabile era corretta (vedi art. 17, c. 5, D.P.R. n° 633/72), difatti “poiché tale documentazione non è stata contestata dall’Ufficio, non si può validamente sostenere che la destinazione finale dei beni (usati o rottami) sia stata diversa dalla fusione e/o trasformazione, per cui si applica l’inversione contabile”.

In conclusione, l’appellante – in forza della produzione documentale mai contestata dall’Ufficio, art. 115 c.p.c. – è riuscito a comprovare “la tipologia, la grammatura” e la fusione del rottame, di conseguenza trova indubbia applicazione la menzionata risoluzione, la quale – per una sua corretta operatività – pone “risalto solo alla destinazione del bene”.

fonte: Altalex.com//Compra oro: qual è il regime Iva applicabile?

IVA, l’incertezza della norma salva dalle sanzioni

La Suprema Corte, con la sentenza n. 17250 del 29 luglio 2014, sancisce un nuovo orientamento secondo il quale non sono irrogabili le sanzioni alla società che detrae indebitamente l’IVA sui bonus qualitativi percepiti dalla casa madre, per effetto del riconoscimento in giudizio, dell’incertezza normativa oggettiva. Nel caso di specie, ad una casa automobilistica erano state contestate le sanzioni per mancato versamento dell’IVA, relativa all’anno 2004, in relazione ad un’operazione di bonus qualitativi effettuata nei confronti di una propria concessionaria.

Secondo l’Amministrazione Finanziaria, i bonus qualitativi erogati dalla Casa madre in favore della concessionaria dovevano essere assimilati ai corrispettivi in denaro per specifiche obbligazioni di fare, pertanto soggette ad IVA ai sensi dell’art. 3, comma 1 D.P.R. n. 633/72. In seguito alla presentazione del ricorso, la Commissione tributaria di Roma aveva annullato l’atto di contestazione, ma la Commissione Tributaria Regionale del Lazio con la sentenza n. 229/6/12, depositata il 12 dicembre 2012, aveva accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate. Da qui il ricorso in Cassazione da parte del contribuente, che tra l’altro faceva rilevare la situazione di incertezza in ordine all’assoggettabilità ad IVA, dei bonus riconosciuti dalle case automobilistiche ai propri concessionari.

Sul punto, la Cassazione ricorda che “per incertezza normativa oggettiva tributaria deve intendersi la situazione giuridica oggettiva … caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal Giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente … la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie” (Cass. sentenze nn. 24670/2007, 7765/2008; 19638/2009).

La Suprema Corte individua anche un decalogo di “fatti indice” che spetta al giudice accertare e valutare al fine di determinare la presenza o meno dell’incertezza normativa oggettiva:

difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge;

difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica;

difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata mancanza di informazioni amministrative o loro contraddittorietà;

mancanza di una prassi amministrativa o adozione di prassi amministrative contrastanti;

mancanza di precedenti giurisdizionali;

formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale;

contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale;

contrasto tra opinioni dottrinali; adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente.

“Tali fatti devono essere accertati ed esaminati ed inseriti in procedimenti interpretativi della formazione che siano metodicamente corretti e che portino inevitabilmente a risultati tra loro contrastanti ed incompatibili”. Sulla base di tali presupposti, la Suprema Corte riconosce la condizione di obiettiva incertezza in ordine alla normativa tributaria in oggetto, pertanto giustifica l’esonero dal pagamento delle sanzioni irrogate alla società contribuente e l’illegittimità dell’atto di constatazione. Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con compensazione delle spese dell’intero giudizio.

Fonte: Fiscopiù - Giuffrè per i Commercialisti - http://fiscopiu.it//La Stampa - IVA, l’incertezza della norma salva dalle sanzioni

Riduzione dell’imposta evasa: spese sostenute, spese da produrre

In tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione a fini di evasione, non può farsi ricorso alla presunzione tributaria, secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda, poiché spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto. Tuttavia, questo vale quando i giudici, pur a conoscenza dell’esistenza di costi in ragione degli elementi in atti, omettono poi di approfondirne l’ammontare, non quando manchi qualsiasi elemento che possa legittimamente far pensare all’esistenza di costi sostenuti dall’azienda. È quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza 20676/14.

Il caso

La Corte d’appello di Caltanissetta condannava un imputato per il reato di omessa dichiarazione fiscale continuata. L’uomo ricorreva in Cassazione, lamentando l’errata applicazione dell’art. 5 d.lgs. n. 74/2000 (reati in materia di imposte sui redditi), in quanto i giudici di merito avrebbero errato a calcolare le imposte evase nelle varie annualità contestate, omettendo di considerare i relativi costi d’impresa. Analizzando la questione, la Corte di Cassazione ripercorreva l’iter seguito dai giudici di merito, i quali avevano sottolineato che, sulla questione dei costi aziendali, nessun documento era stato prodotto, e che l’imputato aveva ammesso di non essersi curato di della tenuta della documentazione contabili. Da ciò, avevano dedotto l’inesistenza di altri elementi che potessero provare l’effettiva esistenza di tali costi sostenuti nell’esercizio dell’attività. L’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 74/2000 punisce chiunque , al fine di evader le imposte, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a tali imposte, quando la somma evasa, relativamente ad ogni singolo tributo, supera i 30.000 €. Effettivamente, in tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione a fini di evasione, non può farsi ricorso alla presunzione tributaria, secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda, poiché spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto. Tuttavia, questo vale quando i giudici, pur a conoscenza dell’esistenza di costi in ragione degli elementi in atti, omettono poi di approfondirne l’ammontare. Nel caso di specie, invece, i giudici d’appello avevano rilevato l’assenza di qualsiasi elemento che potesse legittimamente far pensare all’esistenza di costi sostenuti dall’azienda. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Riduzione dell’imposta evasa: spese sostenute, spese da produrre

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