lunedì 31 marzo 2014

Quarantenne vittima di un infarto: il superlavoro è elemento scatenante

È doveroso il riconoscimento di una correlazione tra infarto e superlavoro, nel caso in cui la crisi cardiaca colpisca un uomo appena quarantenne che smaltisca un’ingente mole di lavoro nei giorni precedenti: l’intensità della fatica può ben essere considerata elemento scatenante. Lo ha stabilito la Cassazione nella sentenza 684/14. Il caso La Corte d’Appello di Genova condannava l’INAIL a corrispondere a un uomo colpito da infarto del miocardio l’indennità per invalidità temporanea. Il particolare, sottolineava che la crisi cardiaca era stata determinata da stress lavorativo che, nell’ultimo periodo, aveva raggiunto un’intensità tale da agire come fattore scatenante. Riconosceva, poi, una percentuale di invalidità permanente pari al 4% secondo quanto affermato dal secondo CTU che, a differenza del primo, aveva tenuto conto della ipertensione arteriosa e della coronaropatia ischemica preesistenti e non aventi origine professionale. Il lavoratore propone ricorso in Cassazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'Appello, dopo aver esattamente qualificato lo stress lavorativo come causa violenta, e il conseguente infarto del miocardio come infortunio sul lavoro, ha esaminato superficialmente la questione relativa alla quantificazione del danno permanente residuato al suddetto infarto. In particolare, si lamenta che la Corte genovese non abbia spiegato la ragione per cui - a fronte di due CTU di primo grado, che avevano, rispettivamente, concluso, la prima, per postumi permanenti pari al 18% e la seconda per una percentuale del 4%di invalidità permanente residua - abbia ritenuto di concordare con le conclusioni del secondo CTU attributive di un danno permanente di percentuale inferiore alla soglia indennizzabile, senza spiegarne in modo adeguato le ragioni e senza menzionare il fatto che anche il consulente di parte dell'INAIL si era espresso in modo concorde con il primo consulente per un danno permanente residuo pari al 18%. E poiché la seconda CTU è assolutamente priva di riscontri scientifici, le carenze e le deficienze diagnostiche della consulenza si rifletterebbero sulla sentenza viziandone la motivazione. La Suprema Corte condivide la doglianza del ricorrente: «benché lo svolgimento di una prima consulenza tecnica non precluda l'affidamento di un’ulteriore indagine a professionista qualificato nella materia al fine di fornire al giudice un ulteriore mezzo volto alla più approfondita conoscenza dei fatti già provati dalle parti, se il giudice intende uniformarsi alle risultanze della seconda consulenza tecnica di ufficio è tuttavia necessario - ove tali risultanze siano state oggetto, nella impostazione difensiva della parte interessata, di critiche precise e circostanziate idonee, se fondate, a condurre a conclusioni diverse da quelle indicate nella consulenza tecnica - che non si limiti a generiche affermazioni di adesione alle risultanze stesse, ma che giustifichi la propria preferenza, specificando la ragione per la quale ritiene di discostarsi dalle conclusioni del primo consulente, salvo che queste abbiano formato oggetto di preciso esame critico nell'ambito della nuova relazione peritale con considerazioni non specificamente contestate dalle parti». Natura della consulenza tecnica d’ufficio. Anche perché la consulenza tecnica d’ufficio che è strumento di valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva nell’accertamento di situazioni rilevabili solo con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche. Solo in questo caso, il giudice può aderire alle conclusioni del consulente senza essere tenuto a motivare la sua scelta, salvo che dette conclusioni formino oggetto di specifiche censure. Inoltre, la Corte genovese, accedendo alla tesi del secondo CTU sulla sussistenza di fattori patologici preesistenti non aventi origine professionale, non ha fatto applicazione dell'art. 79, d.P.R. n. 1124/1965, secondo cui il grado di riduzione permanente dell'attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravata da inabilità preesistenti derivanti da fatti estranei al lavoro deve essere rapportata non alla normale attitudine al lavoro ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità, e deve essere calcolata secondo la cosiddetta formula Gabrielli, espressa da una frazione avente come denominatore la ridotta attitudine preesistente e come numeratore la differenza tra quest’ultima (minuendo) ed il grado di attitudine al lavoro residuato dopo l'infortunio (sottraendo), senza che abbia rilievo la circostanza che l'inabilità preesistente e quella da infortunio incidano sullo stesso apparato anatomo- funzionale. Il ricorso, pertanto, deve intendersi accolto.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it /La Stampa - Quarantenne vittima di un infarto: il superlavoro è elemento scatenante

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