domenica 5 gennaio 2014

TENTATO OMICIDIO - Cassazione, no ai futili motivi quando le ragioni culturali possono escluderli


La Sentenza della Corte in commento, la n. 51059 depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2013, costituisce un sicuro stimolo alla discussione circa l’interpretazione della  “volontà umana” per quei delitti che vengono compiuti all’interno di un sistema famiglia.

L’opera ermeneutica della Prima Sezione, infatti, è assolutamente condivisibile nella parte in cui ricostruisce, approfondendola, la motivazione che porta al rigetto dei motivi del ricorso, segnatamente quello con il quale, la difesa dell’imputato, aveva richiesto la riforma della sentenza di appello, adducendo la “mancata perizia della parte lesa” come evento che avrebbe generato una “mancata assunzione di una prova decisiva”.

La Suprema Corte ricorda, nel superare l’eccezione difensiva che lamentava l’inidoneità delle lesioni a cagionare l’evento morte e la compatibilità delle risultanze medico legali con la denuncia della parte lesa, come in via di fatto “al fine di stabilire l’idoneità e la direzionalità degli atti compiuti dall’imputato, non deve aversi riguardo all’entità delle lesioni riportate dalla parte lesa, ma al mezzo usato dall’imputato, mezzo che – sulla base di una massima di comune esperienza – è indicativo del proposito di provocare la morte della parte lesa” .
Per altro, in punto di diritto viene ribadito come “ la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 (co. 1 lett.d cpp) – e ciò in quanto – “la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro” sottratto alla disponibilità della parti, e rimesso alla discrezionalità del giudice”.

Espressamente esaminando il contesto della “efficacia dell’azione posta in essere”,  la Corte arriva a chiarire come “il padre” abbia voluto porre in essere un’azione tesa alla uccisione della figlia, avendo usato un mezzo “indicativo del proposito di provocare la morte della parte lesa”.

Ed infatti, la Sentenza prosegue nel chiarire come “non vi è dubbio che una simile azione (l’aver infilato la testa della figlia in un sacchetto di plastica e l’aver cercato di impedirle di respirare e di soffocarla stringendo i manici del sacchetto intorno al collo) è idonea a provocare la morte per asfissia ed a nulla rileva, ai fini della qualificazione giuridica del fatto, che la parte lesa sia riuscita ad interrompere l’azione, riportando solo lievi lesioni.”

 Dunque, nel ricostruire le dinamiche del “tentato omicidio”, che costituiva l’oggetto del giudicare, la Corte afferma, senza infingimenti, come la volontà del padre di “uccidere la figlia, fosse apertamente stata manifestata dall’imputato, avendo (tra l’altro) risposto alla figlia che scongiurava di non ucciderla “no, le botte non servono a niente, non bastano, devi pagare… devi stare serena per quello che sto per fare, devi pagare…(testuale a pag. 2 della sentenza impugnata)” (!)

In merito poi all’ulteriore eccezione della difesa, quella che sosteneva la “desistenza volontaria dell’imputato dal portare a compimento il suo intento di uccidere la figlia” la Sentenza in esame nel rigettarlo decisamente, osserva : “l’imputato, quindi, non ha portato a compimento il suo proposito, non perché avesse rinunciato volontariamente ad uccidere sua figlia, ma perché la stessa era riuscita a fuggire”.

Ciò premesso, non v’è chi non veda come si sia al cospetto di una “decisione meditata” di uccidere la figlia, motivata dal fatto che la stessa si fosse unita carnalmente con il proprio fidanzato, che era di religione diversa (non mussulmana) e che quindi erano stati “violati dei precetti della religione mussulmana”, quindi la ragazza doveva pagare con la vita, non importando al padre “di finire  in galera” (pagina 1 della Sentenza - ricostruzione del fatto).

Poste queste premesse, la Sentenza nr. 51059/13, in dissenso con le conclusioni del Procuratore Generale, giunge a considerare “meritevoli di accoglimento” i motivi di ricorso che lamentavano la non applicabilità al fatto reato, della “premeditazione” e dei “futili motivi”.

Vediamo ora, meglio, come la Corte arriva a tali conclusioni, ripercorrendo il ragionamento posto in essere per escludere la “premeditazione”.

Dice la Prima Sezione Penale che: “nel caso in esame non è ravvisabile, alla stregua della motivazione della sentenza impugnata, l’elemento ideologico, perché aver per tutta la notte rimuginato su come punire la ragazza, non è indicativo di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile, presa dall’imputato, un certo tempo prima dell’attuazione del proposito”.

 E prosegue con l’illustrare una considerazione che, ove meglio specificata, sarebba stata di sicuro insegnamento, ma lasciata così nel vuoto, desta della perplessità : “del resto, la ragione dell’aggravamento di pena è proprio nel fatto di aver mantenuto fermo il proprosito di uccidere per un tempo apprezzabile che quanto meno, deve estendersi per un tempo tale da consentire un ripensamento”.

Ne consegue che, meditare per tutta una notte, di uccidere la propria figlia minorenne, per aver amato un ragazzo, l’aver atteso l’uscita di casa, la mattina presto, della moglie, l’aver lucidamente ragionato, con la figlia stessa, della necessità della sua morte, l’aver dichiarato alla stessa minore come “non gli importava di finire in galera”  a detta di Giudici del Supremo Collegio, nel caso de quo, “non costituiscono” elementi della premeditazione, perché la stessa è integrata da due fattori : “uno, ideologico psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile, l’altro, cronologico, rappresentato dal trascorrere di un intervallo di tempo apprezzabile tra l’insorgenza e l’attuazione del proposito”(testuale pag. 5 Sentenza 51059)

La difficoltà di condividere un tale ragionamento, che smentisce gli stessi principi che poi puntualmente richiama,  è poi data dal fatto che, la stessa Sentenza,ricorda nel ricostruire l’antefatto dell’evento cirminoso, come il padre della minore si fosse addirittura “estraniato dalla vita familiare, perché la figlia aveva trovato sostegno per la sua relazione nella madre, e si fosse allontanato sua abitazione”  facendo così evidentemente mancare, all’altro genitore, anche il suo sostegno alla conduzione educativa della minore, questo perché, forse, quando la figlia, appena adolescente, supera un determinato “livello comportamentale” al padre, non resta che risolvere un tale problema, con l’uccisione della prole

Ciò detto in tema di “premeditazione”, non ci resta che osservare come la Corte abbia motivato nell’accogliere la teoria difensiva, in merito all’inapplicabilità al caso de quo dei “futili motivi”.

Ai Giudici del Supremo Collegio piace rieterare un principio : “secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la circostanza aggravante dei “futili motivi” sussite quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e spoporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impuslo criminale” (Cass. Sez 1, sentenza n. 39261 del 5.11.10).

E prosegue “è anche del tutto pacifico, in giurisprudenza, che la circostanza aggravante in questione, ha natura soggettiva, dovendosi individuare la ragione giustificatrice della condotta, nel fatto che la futilità del motivo a delinquere, è indice univoco di un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto”.
 
Ciò premesso in tema di principi condivisibili, la Corte perviene ad una conclusione quantomeno discordante dai precedenti appena ricordati, in quanto giunge a sostenere come: “nel caso in esame l’imputato ha agito perché si è sentito disonorato dalla figlia, la quale non solo aveva avuto rapporti sessuali senza essere sposata (!) e da minore (!) ma aveva avuto tali rapporti con un giovane di fede religiosa diversa, violando quindi anche i precetti dell’Islam” e prosegue “tali motivi non possono essere definiti futili, non potendosi definire, né lieve né banale, la spinta che ha mosso l’imputato ad agire”.

Contraddicendo, con una tale espressione, il richiamo più rilevante, prima menzionato, dell’insegnamento del Supremo Collegio quello dell’esistenza di uno stimolo esterno : “sproporzionato rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa”

A tal proposito v’è da dire che la stessa Sezione della Cassazione, con altri giudici, si era occupata in precedenza, con la Sentenza nr. 6796 del 21.02.12 di specificare l’aggravante dei “futili motivi”, con riferimento al ruolo da attribuire alla “ragione culturale” che potesse spingere il soggetto ad agire ai fini della valutazione del concetto di “futilità” dell’azione stessa, ma è evidente come anche un tale precedente, nulla può significare in un caso come quello in esame, dove la dinamica delle regole della crescita di una giovane ragazza, appena adolescente, viene, con violenza inaudita, pregiudicata dal suo stesso padre, che superata la difesa della madre della propria figlia, tenta di imporre alla minore, non una “educazione”, non un precetto, magari non condivisibile, ma che ritiene utile per la crescita della propria figlia, ma al copntrario, una “scelta omicidiaria” freddamente intrapresa, freddamente giustificata ed applicata come “unica soluzione possibile”.

Quello che sfugge ai giudici ed alla comprensione generale è come questo  (il cercare la “morte della propria figlia”) possa essere un criterio valoriale “non assolutamente sproporzionato” e tale da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente adeguato e sufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da escludere l’aggravante.

Proprio le ultimissime norme contro la violenza di genere, contro il così detto “femminicidio”, dovrebbero indurre ad una più attenta considerazione i “segnali educativi” che sono il portato più generale di una pronuncia di un così alto organo giurisdizionale.

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fonte: ilsole24ore.com/GiorgioVaccaro /TENTATO OMICIDIO - Cassazione, no ai futili motivi quando le ragioni culturali possono escluderli

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